Gennaio-Febbraio 2012
Palestina. Per uno Stato unico? Interventi di Ali Abunimah, Ziyad Clot, Jaseph Massad, Wasim Dahmash, Salman Abu Sitta, Ilan Papp?, Jalal Abukhater. Comunicato del Movimento Giovanile Palestinese (Pym), Euro 10,00
Premessa
A seguito della proposta dell’Autorità nazionale palestinese per il riconoscimento di uno Stato palestinese da parte delle Nazioni Unite – respinta nel novembre 2011 senza che gli Usa abbiano avuto nemmeno la necessità di porre il veto più volte annunciato – si è sviluppato un ampio dibattito sulla questione che ha coinvolto numerosi intellettuali e militanti per la causa palestinese, diversi dei quali hanno interpretato l’iniziativa dell’Anp come la rinuncia a gran parte dei territori storici, al diritto alla resistenza per l’autodeterminazione e al diritto al ritorno dei profughi palestinesi. Per questi motivi abbiamo pensato di fare cosa utile riportando alcune voci critiche rispetto alla questione dello Stato così come è stata posta dall’Anp, voci sistematicamente ignorate dalla quasi totalità dei media italiani e dalla maggioranza dei cosiddetti movimenti di solidarietà ma che sono rappresentative di parti importanti della società palestinese. I testi scelti non implicano la condivisione di quanto esposto dagli autori e neppure è sottintesa la volontà di schierarsi da una parte contro un’altra, poiché riteniamo che i palestinesi abbiano tutto il diritto di scegliere gli obiettivi e le forme di lotta che ritengono più utili per il rispetto dei loro diritti, compresa la scelta estrema della lotta armata secondo quanto previsto dallo stesso diritto internazionale. Quello che a noi preme con questa pubblicazione – ospitata dal «Notiziario del Centro di Documentazione di Pistoia» è far conoscere un filone di pensiero importante all’interno delle dinamiche conflittuali che esistono anche tra le varie componenti della resistenza palestinese e che, a nostro parere, può essere utile per la costruzione di un percorso capace di far uscire la “questione palestinese” da una strada che sembra essere senza sbocchi, visti i rapporti di forza presenti nell’area medio-orientale e a livello internazionale. Per il resto, il nostro compito, come componente del movimento di solidarietà con il popolo palestinese, è quello di continuare a lottare contro la politica estera del nostro Paese mediante quegli strumenti e quelle modalità che riteniamo utili al fine di allargare la protesta contro le scelte politiche nazionali e per tenere viva a livello popolare la coscienza della tragedia che ogni giorno coinvolge la martoriata terra di Palestina. Comitato pistoiese per la Palestina
Riconoscere la Palestina?
di Ali Abunimah*
Gli sforzi dell’Autorità palestinese tesi alla costituzione di uno Stato non sono altro che una farsa elaborata. La creazione di uno Stato da parte dell’Autorità palestinese non avrà alcuna conseguenza, nonostante quello che potrebbe dire il primo ministro palestinese Salam Fayyad. Che fare se la sua decennale campagna per realizzare uno Stato palestinese indipendente su quei pezzi della Palestina storica, conosciuti come Cisgiordania e Gaza, è stata coronata da un fallimento totale? La risposta potrebbe essere che se sei l’Autorità palestinese sponsorizzata dall’occidente (Ap) in una Ramallah occupata da Israele, val bene fingere in ogni caso di avere uno Stato palestinese, in modo da ottenere la complicità del maggior numero di Paesi possibile per questa farsa. Questa sembra essere l’essenza della strategia dell’Ap per la richiesta d’ammissione dello “Stato di Palestina” all’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel prossimo mese di settembre. L’Ap esercita già forti pressioni su tutti i Paesi per sostenere il movimento, e negli ultimi mesi un certo numero di Stati, in particolare in America Latina, ha dato pieno riconoscimento diplomatico all’autorità di Ramallah. Secondo il «New York Times» alcuni diplomatici dicono che, portata al voto nell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, la misura probabilmente passerebbe.
Uno “Stato” di fantasia
La spinta dell’Ap al riconoscimento di uno Stato palestinese è la controparte diplomatica ai suoi sforzi tanto vantati di institution building e di “programmi di sviluppo economico” che dovrebbero essere la base delle infrastrutture del futuro Stato. Ma il programma del rafforzamento istituzionale non è altro che un miraggio, gonfiato da giochi di pubbliche relazioni e dalla stampa che conta. Infatti, le principali “istituzioni” costruite dall’Autorità palestinese sono la polizia di Stato e gli apparati della milizia utilizzati per reprimere l’opposizione politica all’Ap e qualsiasi forma di resistenza all’occupazione israeliana. Nel frattempo l’economia della Cisgiordania, e la stessa Ap, rimangono completamente in balia degli aiuti stranieri. Il riconoscimento delle Nazioni Unite di un finto Stato palestinese non sarebbe più significativo di questo fantasioso “rafforzamento istituzionale” e potrebbe spingere i palestinesi ancora più lontano da una reale liberazione e autodeterminazione. Le argomentazioni dell’Ap di Ramallah vorrebbero fare intendere che la sua strategia per avere il riconoscimento dalle Nazioni Unite è un modo per fare pressione su Israele a livello internazionale. «Questo riconoscimento creerebbe una pressione politica e giuridica su Israele in modo tale che sarebbe costretto a ritirare le sue forze dal territorio di un altro Stato riconosciuto con i confini del 1967», ha detto Riyad al-Malki, “ministro degli esteri” di Ramallah, ai giornalisti nel mese di gennaio. Allo stesso modo, Nabil Shaath, un alto funzionario di Fatah, ha spiegato al «New York Times» che, se uno Stato palestinese fosse riconosciuto dalle Nazioni Unite: «Israele sarebbe allora in violazione quotidiana dei diritti di uno Stato membro e paritario; conseguenze diplomatiche e legali potrebbero seguire, e tutte dolorosamente a carico di Israele». Ma chi ha visto come la “comunità internazionale” funziona quando c’è in ballo Israele, può credere a tali deliranti aspettative? Il Libano è uno Stato membro delle Nazioni Unite dal 1945, eppure questo non ha impedito a Israele di occupare il sud del Libano dal 1978 fino al 2000. L’occupazione israeliana del Libano non è finita a causa delle pressioni internazionali, ma solo perché la resistenza libanese ha buttato fuori Israele e tutte le milizie collaborazioniste. Sin dal massiccio bombardamento nel 2006, Israele ha violato la sovranità del Libano migliaia di volte – a detta della stessa Onu –. Ma nonostante il costante sorvolo dello spazio aereo libanese e, tra le altre violazioni, il rapimento di cittadini libanesi, non ci sono mai state “conseguenze diplomatiche e legali” al fine di ottenere il riconoscimento della responsabilità di Israele. Allo stesso modo, dal 1967 Israele ha occupato le alture del Golan che appartengono alla Siria (anch’essa membro delle Nazioni Unite dal 1945). Non c’è stata praticamente alcuna resistenza armata sulle alture del Golan né c’è stata alcuna pressione internazionale su Israele affinché si ritiri o perché i rifugiati siriani possano tornare alle loro case. Anche dopo che Israele ha illegalmente annesso i territori nel 1981 – una mossa condannata dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite – il silenzio della comunità internazionale ha permesso che la colonizzazione delle alture del Golan da parte di Israele continuasse senza sosta. Perché la situazione in uno “Stato palestinese” dovrebbe essere diversa?
Vittorie “di carta”
Lo sforzo di chiedere il riconoscimento diplomatico di un immaginario Stato palestinese su una parte della Palestina storica è la strategia della disperazione di una leadership palestinese che ha perso la sua legittimità ed è diventata un serio ostacolo per i palestinesi sulla via della riconquista dei loro diritti. Facendo affidamento ai forum diplomatici e alla buona volontà della “comunità internazionale” sono stati fatti precedentemente tentativi senza alcun esito. Ricordiamo che nel 2004, l’Ap ha fatto sforzi enormi per ottenere un parere consultivo dalla Corte Internazionale di Giustizia (Icj) dell’Aia sul fatto che il muro israeliano dell’apartheid in Cisgiordania è illegale e deve essere demolito. Ma al di là di ottenere il parere, l’Ap non aveva assolutamente alcuna strategia per mobilitare i palestinesi e i loro alleati al fine di indurre il resto del mondo a fare applicare la decisione. È stata una vittoria sulla carta che non ha portato alcun cambiamento sul terreno. Infatti, ci sono prove significative che, mentre il corpo diplomatico dell’Autorità palestinese e i negoziatori erano impegnati a l’Aia, la dirigenza ha cercato di soffocare i tentativi delle organizzazioni della società civile palestinese in Cisgiordania e a Gerusalemme Est che volevano attirare l’attenzione sul parere della Corte e organizzarsi intorno a essa, quasi certamente a causa della pressione esercitata da Israele e dagli Stati Uniti. Il Governo di una “Palestina indipendente”, ancora sotto occupazione israeliana e affidato agli aiuti di Stati Uniti e Unione Europea, sarebbe in grado di opporsi a simili pressioni in futuro? I risultati fino a oggi ottenuti dall’Autorità palestinese non offrono nessun motivo per essere ottimisti. Malgrado questi tentativi, il parere della Corte dell’Aia ha avuto tuttavia una conseguenza importante. Non sono state l’Ap né la defunta Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), a cominciare a mobilitarsi. Piuttosto, tra l’inazione dei Governi mondiali nel far rispettare il parere della Cig, la società civile palestinese ha pubblicato in maniera del tutto autonoma nel 2005 l’appello palestinese per il Boicottaggio Disinvestimento e Sanzioni (Bds). Questa campagna si propone di isolare Israele e spingerlo a rispettare i diritti dei palestinesi e il diritto internazionale, attraverso boicottaggi popolari simili a quelli che hanno contribuito alla fine dell’apartheid in Sud Africa. Invece di feticizzare la “statualità”, la campagna Bds si concentra su diritti e realtà: chiede di porre fine all’occupazione israeliana e alla colonizzazione di tutte le terre arabe conquistate nel 1967; chiede piena uguaglianza dei cittadini palestinesi di Israele e il rispetto e la realizzazione dei diritti dei rifugiati palestinesi. Queste richieste sono pienamente coerenti con la Dichiarazione universale dei dell’uomo e col diritto internazionale. L’Autorità palestinese non ha mai avallato questa campagna; di fatto ha cercato di distrarre da essa e di minarla, reclamando solamente un timido boicottaggio dei prodotti provenienti dalle colonie israeliane, quando promuovere attivamente il commercio con Israele è una violazione dell’appello Bds.
La riduzione in “bantustan”
Molti, con esattezza, hanno paragonato lo “Stato” palestinese previsto dall’Ap e dai suoi sponsor ai “bantustan” dell’apartheid in Sud Africa. I “bantustan” erano Stati nominalmente indipendenti, istituiti dal regime di apartheid per garantire la “cittadinanza” ai neri, un modo per eludere le richieste di reale uguaglianza. I Governi del mondo non caddero in trappola e si rifiutarono di riconoscere i “bantustan” perché avevano capito che il riconoscimento diplomatico di quelle entità avrebbe concretamente fatto arretrare la lotta per porre fine all’apartheid in Sud Africa. Non a caso l’unico Paese che ha avuto a che fare a lungo con i “bantustan” – consentendo loro di aprire rappresentanze diplomatiche e ricevendo assiduamente i loro leader – è stato Israele. Israele vedeva i “bantustan” come il modello che avrebbe seguito un giorno per gestire i Palestinesi. Il riconoscimento di uno “Stato” palestinese sotto l’occupazione israeliana renderebbe certamente più solidi e tenaci i privilegi e le posizioni dei funzionari non eletti dell’Ap, senza far nulla per modificare le condizioni o ripristinare i diritti di milioni di palestinesi, non solo nei territori occupati nella guerra del giugno ’67 ma anche all’interno di Israele e nella diaspora. Lungi dall’aumentare la pressione internazionale su Israele, potrebbe anche consentire a quegli Stati, che hanno completamente fallito nel loro dovere di ritenere Israele responsabile nei confronti del diritto internazionale, di lavarsene le mani nascondendosi dietro il mantra: «Ma la Palestina l’abbiamo riconosciuta, cosa volete di più da noi?». I palestinesi e i loro alleati non devono essere distratti da questo teatro internazionale dell’assurdo, ma dovrebbero concentrarsi su una costruzione più ampia e profonda delle campagne Bds affinché Israele ponga fine all’apartheid ovunque sia, una volta per tutte.
13 aprile 2011
*Ali Abunimah è autore di Un Paese, una proposta per porre fine all’impasse israelo-palestinese e ha contribuito a The Goldstone Report: The legacy of the Landmark Investigation of the Gaza Conflict. È cofondatore della pubblicazione on-line «Electronic Intifada» e consulente politico di Al-Shabaka, The Palestinian Policy Network.
Abbas permetterà che Israele mantenga gli insediamenti anche se l’Onu riconoscerà lo “Stato”
di Ali Abunimah*
Oggi, in un articolo sul «New York Times» Mahmoud Abbas, leader dell’Autorità palestinese (Ap) con sede a Ramallah, espone la sua strategia per giungere alla costituzione di uno Stato palestinese attraverso il riconoscimento da parte dell’Onu. Ma Abbas riesce solo a rendere manifesta la falsità di una strategia che, seppure in apparente rottura con i fallimenti del passato, non fa altro che ricondurre a quella stessa impotenza, mettendo inoltre allo scoperto l’uso mistificatorio del linguaggio che sta dietro al suo approccio alla questione. Un’intervista esclusiva di «Electronic Intifada» al “capo negoziatore” palestinese Saeb Erekat rivela inoltre che, pur cercando di raggiungere la “statualità”, Abbas continua a permettere a Israele di annettersi vaste porzioni di insediamenti sul territorio del cosiddetto “Stato”.
L’editoriale di Abbas sul «New York Times»
Abbas inizia scrivendo:
… a settembre chiederemo all’Assemblea generale delle Nazioni Unite il riconoscimento internazionale dello Stato di Palestina entro i confini del 1967 e l’ammissione del nostro Stato alle Nazioni Unite come membro a pieno titolo. Molti si chiedono che valore abbia questo riconoscimento finché continua l’occupazione israeliana. Altri ci hanno accusato di mettere in pericolo il processo di pace. Noi crediamo che abbia invece un significato straordinario per tutti i palestinesi, quelli che vivono in patria, in esilio e sotto occupazione.
E aggiunge:
L’ammissione della Palestina alle Nazioni Unite spianerebbe la strada all’internazionalizzazione del conflitto come questione legale e non solo politica. Spianerebbe inoltre la strada alla nostra possibilità di accusare Israele presso le Nazioni Unite e gli altri organi preposti al controllo del rispetto dei diritti umani, così come presso la Corte Internazionale di Giustizia. La nostra richiesta di riconoscimento come Stato non va considerata una boutade; abbiamo perso troppi dei nostri uomini e delle nostre donne per esserci impegnati in un teatro politico del genere. Ora andiamo alle Nazioni Unite per garantire il diritto di vivere liberamente nel 22% della nostra patria storica perché abbiamo negoziato con lo Stato di Israele per vent’anni senza avvicinarci affatto alla costituzione di un nostro Stato indipendente. Non possiamo attendere indefinitamente mentre Israele continua a mandare altri coloni nella Cisgiordania occupata e a negare ai palestinesi l’accesso a gran parte della nostra terra e dei luoghi sacri, specialmente a Gerusalemme. Il programma israeliano di insediamenti non è stato fermato né dalle pressioni politiche né dalle promesse di gratificazioni da parte degli Stati Uniti. Poi, dopo aver ostentato la presunta idoneità dei palestinesi alla statualità, Abbas si lancia nella battuta finale: Una volta ammesso alla Nazioni Unite, il nostro Stato è pronto a negoziare su tutti i temi centrali del conflitto con Israele. Al centro dei negoziati ci sarà il raggiungimento di una soluzione giusta per i rifugiati palestinesi, basata sulla risoluzione 194, approvata dall’Assemblea generale nel 1948.
La Palestina negozierebbe però da una posizione di membro delle Nazioni Unite, il cui territorio è occupato militarmente da un altro e non come un popolo sconfitto, pronto ad accettare qualsiasi condizione gli si presenti. Ma che cosa significa tutto questo? Abbas cerca di ottenere l’ammissione all’Onu di uno “Stato palestinese” inesistente, scommettendo sul fatto che questo cambierebbe in modo sostanziale gli equilibri di potere quando questo “Stato” tornerà a negoziare con Israele. Ma su cosa si basa questo scommessa? In che modo il riconoscimento simbolico della Palestina cambierebbe i fatti sul terreno? L’idea che “la comunità internazionale” comincerà immediatamente a esercitare una vera pressione su Israele semplicemente sulla base dell’ennesima dichiarazione dell’Onu – che andrebbe ad aggiungersi alle decine di altre mai imposte a Israele – è ingannevole, come ho spiegato qualche settimana fa in un articolo per «Al-Jazeera» (Riconoscere la Palestina, 13 aprile 2011). Abbas si rivela inoltre un mistificatore quando afferma che: «chiederemo il riconoscimento internazionale dello Stato di Palestina entro i confini del 1967». Abbas ammette poi che una volta ottenuto il riconoscimento dello “Stato”, tornerà a “negoziare” con lo stesso intransigente Israele di sempre sugli stessi argomenti “chiave”.
Intervista con Saeb Erekat
Effettivamente in un’intervista concessami la settimana scorsa, Saeb Erekat, capo negoziatore di Abbas, ha confermato che lo “Stato di Palestina” sarebbe ancora pronto a “scambi di territorio”, che consegnerebbero a Israele parti rilevanti della Cisgiordania, cioè del territorio dello “Stato”. Ho chiesto espressamente a Erekat se i confini richiesti dall’Ap fossero quelli del 4 giugno 1967 senza scambi di territorio e senza insediamenti israeliani. Venerdì scorso, parlando al telefono dalla Cisgiordania occupata da Israele, Erekat ha risposto: «No. Aspetta un momento, aspetta un momento. Una volta diventato uno Stato sovrano, allora sarà legale discutere sulle dimensioni e sul valore degli scambi di territori. Ma non prima di allora». Messo ulteriormente sotto pressione, Erekat ha elaborato: «Israele deve riconoscermi entro i confini del 1967 e poi fare le richieste, perché molti Paesi scambiano terre, ma devono essere sovrani, devono conoscere i loro confini». Lo storico capo negoziatore ha affermato che: «Se gli israeliani usano il numero magico 1967 e riconoscono lo Stato palestinese entro i confini del 1967 e introducono gli scambi, siamo disposti a parlarne, certo». In altre parole, Abbas persegue la “sovranità” presso l’Onu per fare esattamente quello che i veri Stati sovrani non fanno, cioè cedere territorio a un occupante invasore e colonizzatore. I Palestine Papers hanno rivelato che Erekat e altri negoziatori hanno già fatto concessioni senza precedenti a Israele durante i negoziati del 2008, offrendo a Israele di mantenere quasi tutte le colonie illegali costruite a Gerusalemme occupata e nei dintorni dopo il 1967. Non c’è nulla di nuovo nella posizione di Abbas. L’unica vantaggio che si potrebbe trarre dal riconoscimento dell’Onu è il riconoscimento internazionale di Abbas e del suo entourage in quanto leader di uno “Stato” immaginario, mentre per i palestinesi non cambierà nulla sul terreno.
17 maggio 2011
Perché ho vuotato il sacco sulla Palestina
di Ziyad Clot*
L’attacco israeliano contro Gaza e i disastrosi “colloqui di pace” mi hanno costretto a rivelare quello che sapevo. In Palestina è giunto il momento della riconciliazione nazionale. Alla vigilia della commemorazione del 63° della Nakba – lo sradicamento dei palestinesi che ha accompagnato la creazione dello Stato di Israele nel 1948 – questo è un momento molto atteso e un momento di speranza. All’inizio di questo anno il rilascio da parte di «Al-Jazeera» e del «The Guardian» di 1600 documenti relativi al cosiddetto processo di pace ha provocato profonda costernazione tra i palestinesi e nel mondo arabo. I Palestine Papers coprono più di 10 anni di colloqui (dal 1999 al 2010) tra Israele e l’Olp; illustrano le conseguenze tragiche di un processo politico iniquo e distruttivo che si basava sul presupposto che i palestinesi potessero realmente negoziare i loro diritti e ottenere l’autodeterminazione, mentre subivano le conseguenze dell’occupazione israeliana. Il mio nome è stato indicato come una delle possibili fonti di tali rivelazioni. Vorrei chiarire la portata del mio coinvolgimento in queste rivelazioni e spiegare le mie motivazioni. Ho sempre agito nell’interesse del popolo palestinese, nella sua interezza, e al meglio delle mie capacità. La mia esperienza personale con il “processo di pace” ebbe inizio a Ramallah, nel gennaio 2008, dopo essere stato assunto come consulente per l’Unità di sostegno ai negoziati (Nsu) dell’Olp, specificatamente incaricato del problema dei profughi palestinesi. Questo è avvenuto un paio di settimane dopo che un traguardo, durante la conferenza di Annapolis, era stato fissato: la creazione dello Stato palestinese entro la fine del 2008. Soltanto dopo 11 mesi di lavoro, nel novembre dello stesso anno, mi sono dimesso. Entro il mese di dicembre 2008, invece della creazione di uno stato in Palestina, ho assistito in Tv all’uccisione di oltre 1400 palestinesi a Gaza da parte dell’esercito israeliano. Le mie forti motivazioni nel lasciare la mia posizione nella Nsu e la mia valutazione del “processo di pace” sono state chiaramente spiegate ai negoziatori palestinesi nella mia lettera di dimissioni del 9 novembre 2008.
I “negoziati di pace” sono stati una farsa ingannevole per mezzo dei quali sono stati imposti da Israele – unilateralmente e sistematicamente appoggiati dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea – termini tendenziosi. Lungi dal consentire una fine negoziata ed equa del conflitto, il processo di Oslo ha radicalizzato le politiche israeliane segregazioniste e giustificato l’inasprimento dei controlli di sicurezza imposti alla popolazione palestinese, così come la sua frammentazione geografica. Lungi dal preservare la terra sulla quale costruire uno Stato, ha tollerato l’intensificazione della colonizzazione del territorio palestinese. Lungi dal mantenere una coesione nazionale, il processo al quale ho partecipato, anche se brevemente, è stato determinante nel creare e aggravare le divisioni tra i palestinesi. Nei suoi sviluppi più recenti, è diventato un’impresa crudele della quale i palestinesi di Gaza hanno maggiormente sofferto. Ultimo, ma non meno importante, questi negoziati escludevano la grande maggioranza del popolo palestinese: i sette milioni di profughi palestinesi. La mia esperienza, negli 11 mesi passati a Ramallah, ha confermato che l’Olp, data la sua struttura, non è in grado di rappresentare tutti i diritti e tutti gli interessi dei palestinesi. Tragicamente, i palestinesi sono stati lasciati all’oscuro della sorte dei loro diritti individuali e collettivi nei negoziati, e la loro leadership politica divisa non era ritenuta responsabile delle sue decisioni o delle sue non azioni. Dopo essermi dimesso, ero convinto di aver il dovere di informare il pubblico. Poco dopo l’inizio della guerra contro Gaza ho iniziato a scrivere della mia esperienza a Ramallah. Nel mio libro, Il ny aura pas d’Etat Palestinien (Non ci sarà uno Stato palestinese), concludevo: «Il processo di pace è uno spettacolo, una farsa, giocata a scapito della riconciliazione palestinese e al costo dello spargimento di sangue a Gaza». In piena coscienza, e agendo in maniera indipendente, ho poi accettato di condividere alcune informazioni con «Al-Jazeera», in particolare per quanto riguarda la sorte dei diritti dei rifugiati palestinesi nei colloqui del 2008. Altre fonti hanno fatto lo stesso, anche se non sono a conoscenza della loro identità. Portare questi tragici sviluppi del “processo di pace” a un più ampio pubblico arabo e occidentale si giustificava poiché era nell’interesse generale del popolo palestinese. Non ho avuto, e continuo a non avere, alcun dubbio sull’obbligo morale, giuridico e politico di procedere in questo modo. Oggi mi sento sollevato dal fatto che questa informazione di prima mano sia disponibile per i palestinesi nei territori occupati, in Israele e in esilio. In un certo senso, i diritti dei palestinesi sono tornati in possesso dei loro titolari e le persone sono ora in grado di prendere decisioni, libere da pregiudizi, sul futuro della propria lotta. Sono anche contento che chi ha in mano, a livello internazionale, le sorti del conflitto israelo-palestinese possa accedere a questi documenti. Il mondo non può più trascurare che, mentre il forte impegno palestinese per la pace è vero, la ricerca infruttuosa di un “processo di pace” impostato sulla base delle esclusive condizioni della potenza occupante porta a compromessi che sarebbero inaccettabili in qualsiasi altra regione del globo. Infine, mi sento rassicurato dal fatto che il popolo di Palestina, nella gran maggioranza, capisce che la riconciliazione, tra tutte le sue componenti, debba essere il primo passo verso la liberazione nazionale. I palestinesi della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, i palestinesi in Israele e i palestinesi che vivono in esilio hanno un futuro comune. Il percorso verso l’autodeterminazione palestinese richiederà la partecipazione di tutti, in una piattaforma politica rinnovata. «The Guardian», sabato 14 maggio 2011
Traduzione a cura di ISM-Italia, Milano 13 giugno 2011
* Ziyad Clot è un giovane avvocato franco-palestinese, nato in Francia nel 1977. Nel 2007 decide di recarsi in Cisgiordania, per un eventuale lavoro all’Università di Birzeit come docente. A Ramallah gli viene offerto un posto di consigliere giuridico nella Nsu (Unità di sostegno per i negoziati) dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp); nel giugno 2008 partecipa, come consigliere di Saeb Erekat, ai negoziati di pace con Israele sul problema del diritto al ritorno dei profughi. Visita anche Haifa, la città dalla quale la famiglia materna è stata espulsa nel 1948, per visitare la casa che era stata dei suoi nonni, che da allora hanno vissuto in Libano. Nel novembre 2008, dopo l’esperienza per lui sconvolgente, di negoziati ridotti a una farsa, di cui il libro è una testimonianza, dà le dimissioni dall’incarico. Il 23 gennaio 2011, «Al-Jazeera» e il «The Guardian» pubblicano i documenti che vanno ora sotto il nome di Palestine Papers. Il 14 maggio, sul «The Guardian», Ziyad Clot rivela di essere stato una delle persone che li ha resi pubblici. In totale si tratta di 1600 documenti, migliaia di pagine di rapporti diplomatici sulle trattative tra israeliani e palestinesi, risalenti al periodo tra il 1999 e il 2010. Tra i più esplosivi sono i rapporti che riguardano Gerusalemme e il diritto al ritorno dei profughi. Erekat offriva a Israele “la più grande Gerusalemme della storia”, concedendo allo Stato israeliano l’annessione definitiva di tutti gli insediamenti di Gerusalemme Est, tranne quello di Har Homa, in cambio del riconoscimento dello Stato palestinese. Ma anche questa offerta fu rifiutata. Addirittura Abbas si dichiara pronto ad “archiviare” l’embargo che soffoca Gaza, pur di indebolire Hamas. Abbas, accetta inoltre di non sostenere l’iter di approvazione, previsto dall’Onu, del “Rapporto Goldstone” che descrive i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità commessi dall’esercito israeliano nella striscia di Gaza durante l’operazione «Piombo fuso”, senza ottenere nulla in cambio. Ziyad Clot è autore del libro Non ci sarà uno Stato palestinese – Diario di un negoziatore in Palestina, Zambon Editore 2011 e responsabile della consegna dei Palestine Papers ad «Al-Jazeera» e al «The Guardian», come da lui rivelato il 14 maggio 2011 sul «The Guardian».
Il diritto di Israele di esistere
di Joseph Massad*
I negoziati israelo-palestinesi, avviati ormai più di vent’anni fa, sono stati fin dall’inizio salutati come storici per avere inaugurato un “processo di pace” che avrebbe risolto quello che è generalmente chiamato “conflitto arabo-israeliano”. Per i palestinesi e la comunità internazionale, rappresentata dalle Nazioni Unite e dalle miriadi di risoluzioni votate dal Consiglio di sicurezza e dall’Assemblea generale fin dal 1948, l’oggetto dei negoziati doveva essere la colonizzazione delle terre, l’occupazione del territorio e della popolazione e le leggi che sanciscono le discriminazioni etniche e religiose in Israele che, tra le altre cose, impediscono ai rifugiati palestinesi di ritornare nelle loro terre e di rientrare in possesso delle loro proprietà confiscate. Nelle loro lotte contro queste pratiche, i leader palestinesi – in Israele, nei Territori occupati o in esilio – hanno sempre invocato i diritti sanciti dal diritto internazionale e dalle risoluzioni Onu, che Israele si è regolarmente rifiutato di applicare o riconoscere fin dal 1948. Quindi per i palestinesi, sostenuti dalle Nazioni Unite e dal diritto internazionale, i negoziati dovevano avere lo scopo preciso di porre fine a colonizzazione, occupazione e discriminazione. Dall’altro lato, uno degli argomenti più forti e persistenti sviluppati dal movimento sionista e da Israele dal 1948 a oggi in difesa dell’istituzione di Israele e delle sue successive politiche è l’invocazione di diritti israeliani non basati sul diritto internazionale o sulle risoluzioni Onu. Questa distinzione tra le rivendicazioni “di diritto” palestinesi e israeliane è cruciale. Mentre i palestinesi invocano diritti internazionalmente riconosciuti, Israele reclama diritti che sono riconosciuti a livello meramente nazionale dal suo stesso Stato. Per il sionismo questa è una modalità innovativa di argomentazione in quanto, nella sua applicazione, Israele invoca principi non solo giuridici ma anche etici. In questo contesto, Israele ha affermato nel corso degli anni che gli ebrei hanno diritto a fondare uno Stato, anzi uno Stato “ebraico”, in Palestina; che questo Stato ha il “diritto di esistere” e che ha il “diritto di difendersi”, incluso il diritto accessorio di essere l’unico Stato nella regione a possedere armi nucleari; che ha il “diritto” di ereditare tutte le terre bibliche che il Dio ebraico gli ha promesso e il “diritto” di emettere leggi discriminatorie sul piano razziale e religioso per preservare il carattere ebraico dello Stato o – per dirla nella sua formulazione più recente – “uno Stato ebraico e democratico”. Israele ha anche insistito affinché i suoi nemici, incluso il popolo palestinese che opprime con espropri, colonizzazione, occupazione e discriminazione, riconoscano tutti questi diritti, primo tra tutti il “diritto di esistere in quanto Stato ebraico”, come condizione e premessa di qualsiasi pace.
I diritti non sono negoziabili
Israele ha incominciato a invocare questo diritto con veemenza negli ultimi dieci anni, dopo che l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina ebbe soddisfatto, negli anni ’70 e ’80, la precedente richiesta di riconoscere il suo “diritto di esistere”. Nel diritto internazionale gli Stati sono riconosciuti come esistenti de facto e de iure, ma non vi è menzionata la nozione di “diritto di esistere” di uno Stato né tantomeno che gli altri Stati debbano riconoscere tale diritto. Ciò nondimeno, la modifica da parte di Israele della propria rivendicazione – che cioè gli altri Stati debbano riconoscere non più solo il suo “diritto di esistere” ma anche il suo “diritto di esistere in quanto Stato ebraico” – è oggi portata avanti con assoluta determinazione in quanto essa è cruciale per gli obiettivi ultimi che il progetto sionista si è posto fin dalle sue origini, e cerca di colmare lo scarto persistente tra la personale concezione di Israele dei propri diritti nella realizzazione degli obiettivi sionisti e la diversa interpretazione che ne è data dalla comunità internazionale. Si tratta di una questione centrale poiché tutti questi diritti di cui Israele si arroga la titolarità si traducono nel diritto di colonizzare e occupare le terre palestinesi e di discriminare la popolazione non ebraica. Israele insiste sul fatto che questi diritti non sono negoziabili e che l’oggetto dei negoziati è in realtà tutt’altro, che cioè i suoi nemici accettino tali diritti in modo inequivocabile, ponendo così le basi per la pace e la fine dello stato di guerra nella regione. Tuttavia, i diritti che Israele reclama per sé sono al tempo stesso centrali per ciò che i palestinesi e la comunità internazionale sostengono essere l’oggetto dei negoziati: colonizzazione, occupazione e discriminazione etnica e religiosa. Ma queste tre prassi – come Israele ha già ampiamente chiarito – sono protette in quanto diritti auto-arrogati e pertanto non sono negoziabili. Anzi, esse sono cruciali per la realizzazione di Israele nella sua definizione più profonda. Metterle in discussione significherebbe annullare la nozione stessa di “Stato ebraico”. Stando così le cose, allora qual è il significato attribuito da Israele all’intero processo negoziale inaugurato dalla conferenza di pace di Madrid nel 1991? Di seguito cercherò di ricostruire la storia di queste rivendicazioni allo scopo di comprendere il punto di vista israeliano e chiarire quali siano le premesse dei negoziati.
I diritti di Israele: precedenti storici
Il movimento sionista ha spesso sostenuto che fondare uno Stato ebraico per gli ebrei di tutto il mondo fosse una necessità storica e morale da proteggere e prevedere a livello giuridico, lavorando instancabilmente in questa direzione per diversi decenni. Ciò non significa tuttavia che i suoi testi fondativi si muovessero su questo stesso principio giuridico o morale. A dire il vero, nelle sue opere più importanti, Lo Stato ebraico e Altneuland, Theodor Herzl, il “padre” del sionismo, non invocò mai la nozione di “diritto” degli ebrei di possedere uno Stato, fosse esso in Palestina o in Argentina (l’altra collocazione che Herzl proponeva). Herzl parlò di una “soluzione” alla questione ebraica ma non di un “diritto”. Così come non faceva menzione di tale “diritto” il primo congresso convocato da Herzl nel 1897 né il Programma di Basilea che ne uscì. Questo vale anche per i tre testi fondativi a cui il sionismo lavorò intensamente. Il primo di questi testi, la Dichiarazione Balfour diffusa il 2 novembre 1917 dal Governo britannico, faceva appello al linguaggio degli affetti piuttosto che a quello dei diritti. In essa si prometteva infatti che il Governo inglese “vede con favore” la fondazione in Palestina di un “focolare nazionale per il popolo ebraico” e che la sua era una “dichiarazione di simpatia per le aspirazioni dell’ebraismo sionista”. Seguì il Mandato per la Palestina, votato nel 1922 dal Consiglio della Società delle Nazioni sulla base del testo della Dichiarazione Balfour, dove ancora una volta non si riconosceva alcun diritto ebraico a uno Stato, né in particolare alla Palestina. Ciò che invece vi si riconosceva era «il legame storico del popolo ebraico con la Palestina» in quanto «base per la ricostituzione del loro focolare domestico in quel Paese», ribadendo, come già nella Dichiarazione Balfour, che ciò non avrebbe dovuto pregiudicare «diritti» dei non ebrei. Il terzo testo, che è anche il più importante, la risoluzione del novembre 1947 approvata dall’Assemblea generale dell’Onu contenente il Piano di partizione della Palestina, si apriva con un preambolo di natura morale in cui l’Assemblea osservava che «l’attuale situazione in Palestina è tale da mettere verosimilmente in pericolo il benessere generale e le relazioni amichevoli tra le nazioni» e pertanto era necessario fornire una «soluzione» al «problema della Palestina».
Le rivendicazioni di Israele
A differenza di questi documenti sionisti internazionali e fondativi, in cui il linguaggio dei diritti, internazionali o auto-arrogati, non era mai utilizzato, il movimento sionista insistette affinché esso trovasse applicazione nel suo documento di fondazione dello Stato israeliano, ovvero la cosiddetta «Dichiarazione di indipendenza» di Israele, inizialmente intitolata Dichiarazione di fondazione dello Stato di Israele. Il documento, che porta la firma di 37 leader ebraici, di cui 35 erano coloni europei e solo uno era nato in Palestina, ci (dis)informa che: nell’anno… 1897… alla presenza del padre spirituale dello Stato ebraico, Theodore Herzl, si riunì il Primo Congresso sionista e proclamò il diritto del popolo ebraico alla rinascita nazionale nel Paese che gli appartiene. Come dimostrano i documenti storici, né Herzl né il Congresso sionista hanno mai proclamato un diritto del genere. Ma la «Dichiarazione di indipendenza» continua su questo tono: Questo diritto è stato riconosciuto dalla Dichiarazione Balfour del 2 novembre 1917 e riaffermato dal Mandato della Società delle Nazioni che, in particolare, ha sancito a livello internazionale il legame storico tra il popolo ebraico e Eretz-Israel, e il diritto del popolo ebraico a ricostituirvi il proprio focolare nazionale … Il 29 novembre 1947 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato una risoluzione che chiede la costituzione di uno Stato ebraico nell’Eretz-Israel. L’Assemblea generale chiede agli abitanti dell’Eretz-Israel di intraprendere tutti i passi necessari per l’applicazione di questa risoluzione. Questo riconoscimento da parte delle Nazioni Unite del diritto del popolo ebraico di fondare il proprio Stato è irrevocabile. Mentre nessuno dei documenti citati aveva minimamente affermato questo diritto, il fatto di attribuire loro tale affermazione va visto come un investimento sionista nel nuovo linguaggio delle relazioni internazionali, dove la nozione di diritto era stata stabilmente introdotta dopo la Seconda guerra mondiale, non da ultimo nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Ciò coincideva anche con l’emergere, nello stesso periodo, della retorica dei diritti come forma più diffusa per dare voce alle proprie rivendicazioni. Anzi, la “Dichiarazione di indipendenza” di Israele è talmente permeata da questa modalità argomentativa da richiamare la nozione, tipica dell’Illuminismo europeo, di “diritto naturale” laddove, nel preambolo, afferma che: «questo diritto [a uno Stato ebraico] rappresenta il diritto naturale del popolo ebraico di essere padrone del proprio destino, come tutte le altre nazioni, in un suo Stato sovrano». Gli estensori della dichiarazione concludono che: in virtù del nostro diritto storico e naturale, e forti della risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, dichiariamo pertanto la fondazione dello Stato ebraico nell’Eretz-Israel, che avrà il nome di Stato di Israele. È importante qui sottolineare che la logica di questo documento risiede nel suo insistere sul fatto che l’invocazione del diritto ebraico di fondare uno Stato ebraico in Palestina avrebbe una chiara genealogia giuridica e morale, di cui la fondazione stessa non sarebbe che l’atto conclusivo, e che tale diritto sarebbe stato alla fine garantito “irrevocabil[mente]” dal Piano di partizione. Che nulla di tutto ciò fosse vero non scoraggiò minimamente gli estensori, i quali, nell’affermare un diritto che si erano arrogati, stavano istituendo una modalità argomentativa che si sarebbe poi rivelata una retorica più che mai vincente nella valutazione delle successive politiche israeliane.
Il significato di “Stato ebraico”
Il Piano di partizione delle Nazioni Unite era una proposta non vincolante che non fu mai ratificata o adottata dal Consiglio di sicurezza, e pertanto non acquisì mai lo status legale richiesto dai regolamenti delle Nazioni Unite (sebbene, per quanto concerne il popolo palestinese, le Nazioni Unite non avessero alcun diritto di ripartire quel territorio, soprattutto senza essersi prima consultate con lo stesso popolo palestinese, negando in tal modo il suo diritto all’autodeterminazione). Ciò nondimeno è importante comprendere che cosa intendesse il Piano di partizione con i termini “Stato ebraico” e “Stato arabo”, dato che il Governo israeliano utilizza questo documento per giustificare la sua stessa fondazione e le susseguenti politiche. Affinché Israele potesse affidarsi alla lettera del Piano per giustificare la propria fondazione e le proprie politiche, era innanzitutto necessario stabilire se i due Stati proposti dovessero essere arabi e israeliani a livello meramente demografico o se viceversa i loro ordinamenti dovessero garantire un regime di diritti differenziati per arabi e israeliani, discriminando di conseguenza i non arabi e i non israeliani. Ovviamente la seconda ipotesi è da escludere. Sebbene Israele procedesse immediatamente a varare una serie di leggi discriminatorie sul piano etnico e religioso contro i propri cittadini arabi palestinesi (una trentina di queste leggi sono tuttora in vigore) e a espropriare la maggior parte delle terre possedute da arabi palestinesi, il Piano di partizione non aveva né proposto né autorizzato tali misure. Al contrario, in esso si affermava chiaramente che “non deve essere fatta alcuna discriminazione di alcun tipo tra gli abitanti a motivo della loro etnia, religione, lingua o sesso” (cap. 2, art. 2) e che: «gli espropri di terre possedute dagli arabi nello Stato ebraico (o dagli ebrei nello Stato arabo)… non saranno autorizzati se non per ragioni di pubblico interesse. In tutti i casi di esproprio, prima del passaggio di proprietà sarà riconosciuta una piena compensazione pari a un valore fissato dalla Corte suprema» (cap. 2, art. 8). Quando la «Dichiarazione di indipendenza» fu pubblicata, il 14 maggio 1948, le forze sioniste avevano già espulso circa 400.000 palestinesi dalle loro terre e ne avrebbero espulsi altri 350.000 nei mesi successivi. Da tutto ciò si comprende chiaramente come il Piano di partizione non solo non autorizzasse la pretesa di Israele di fondare uno Stato ebraico con una maggioranza demografica ottenuta per mezzo della pulizia etnica, ma nemmeno la sua pretesa di essere uno Stato ebraico – nel senso di uno Stato che privilegia, sul piano legale e istituzionale, i cittadini ebrei a discapito dei non ebrei –. La proposta del Piano di partizione su cui Israele poggia il suo atto fondativo prevedeva inizialmente uno Stato ebraico a maggioranza araba, poi leggermente modificato per includere un 45% di popolazione araba. Pertanto essa non prospettava affatto uno Stato libero dagli arabi o arabrein [dal ted. “libero da arabi”, analogamente al concetto nazionalsocialista judenrein, n.d.t.], come gli israeliani avevano sperato e come ancora oggi molti ebrei israeliani vagheggiano. Anzi, mentre la Palestina veniva suddivisa in 16 distretti, 9 dei quali sarebbero ricaduti nello Stato ebraico proposto, gli arabi palestinesi sarebbero stati numericamente prevalenti in 8 dei 9 distretti. Il termine “Stato ebraico” non è mai utilizzato nel Piano di partizione per autorizzare la pulizia etnica o la colonizzazione delle terre confiscate a un gruppo etnico da parte di un altro, soprattutto in virtù del fatto che il Piano prevedeva che gli arabi avrebbero sempre rappresentato un’ampia “minoranza” all’interno del nuovo Stato ebraico, e sanciva di conseguenza i diritti tipici da riconoscere alle minoranze in ciascuno Stato. Ma il fatto che gli arabi rappresentassero un‘ampia minoranza e potessero eventualmente, nel giro di pochi anni, superare la popolazione ebraica dello Stato ebraico, è un’ipotesi che non fu contemplata dal Piano. Del resto, il Piano non prendeva in considerazione le conseguenze di altre importanti questioni.
Ad esempio, se lo Stato ebraico fosse stato definito dal nazionalismo ebraico, in che modo esso avrebbe potuto accogliere quel 45% di popolazione con una ben diversa nozione di nazionalismo, esclusa a priori dal nazionalismo di Stato? E se anche i palestinesi arabi nello Stato ebraico non avessero aderito al nazionalismo palestinese, come avrebbero potuto abbracciare il nazionalismo ebraico di Stato (anche volendolo), essendone esclusi ipso facto? Come avrebbe potuto il nuovo Stato ebraico non discriminarli? Per converso, la situazione demografica delineata dal Piano non poneva problemi per lo Stato arabo, in quanto si prevedeva che in quel territorio la popolazione ebraica sarebbe stata pari all’1,36%. Il movimento sionista, pur avendo ben compreso le contraddizioni insite nel Piano e avendole sfruttate per organizzare l’espulsione della maggior parte della popolazione araba dallo Stato ebraico protetto, non riuscì tuttavia a rendere lo stato arabrein, il che ha complicato non poco le cose con il trascorrere del tempo. Oggi infatti il 22% della popolazione israeliana è composta da arabi palestinesi esclusi dal nazionalismo ebraico e colpiti da discriminazioni istituzionali in quanto non ebrei. Va da sé che, se Israele fosse stato perfettamente arabrein, non ci sarebbe stato alcun bisogno di leggi che discriminassero tra ebrei e non-ebrei, tra cui la Legge sul ritorno (1950), la Legge sulla proprietà assente (1950), la Legge sulla proprietà di Stato (1951), la Legge sulla cittadinanza (1952), la Legge sullo status (1952), la Legge sull’amministrazione delle terre di Israele (1960), la Legge sulla costruzione e urbanizzazione (1965) e la Legge provvisoria del 2002 che vieta i matrimoni tra israeliani e palestinesi dei Territori occupati. I sionisti, tra i quali anche autorevoli storici come Benny Morris, hanno sostenuto che è la mera presenza degli arabi nello Stato ebraico ciò che ha spinto il legislatore israeliano a includere elementi di razzismo in queste leggi. Se Israele fosse riuscito a espellere tutti i palestinesi, l’unico strumento legislativo necessario a preservarne lo status “arabrein” sarebbe stata una legge sull’immigrazione che sancisse tale status. Quindi, in ultima analisi, il diritto rivendicato da Israele di costruire uno Stato ebraico si traduce immediatamente nel diritto degli ebrei di colonizzare le terre dei palestinesi, il che implica la necessità di espropriare le loro terre in modo che possano essere occupate, di ridurre il numero dei palestinesi attraverso l’espulsione e il varo di leggi che ne impediscano il rimpatrio, e la neutralizzazione dei diritti dei non espulsi attraverso la discriminazione legale e istituzionale. È qui importante sottolineare ancora una volta che, per gli estensori del Piano di partizione, “Stato ebraico” significava uno Stato governato da ebrei nazionalisti e aderenti al sionismo, ma la cui popolazione era per quasi metà composta da arabi palestinesi le cui terre non potevano essere confiscate per la colonizzazione ebraica, e che avrebbero dovuto godere degli stessi diritti degli ebrei e non subire alcuna discriminazione razziale o religiosa. Per Israele, al contrario, il concetto di “Stato ebraico” è del tutto diverso e sembra coincidere con l’espulsione di gran parte della popolazione araba, il divieto al suo ritorno, la confisca delle sue terre, la colonizzazione esclusiva degli ebrei e il varo di leggi discriminatorie contro gli arabi palestinesi rimasti nel Paese. Quando oggi Israele insiste affinché l’Autorità palestinese e gli altri Stati arabi riconoscano il suo diritto di essere uno Stato ebraico, non intende chiedere il riconoscimento della sua ebraicità nell’accezione del Piano di partizione, bensì nell’interpretazione che lo Stato israeliano ne dà attraverso le proprie politiche. A questo proposito è importante osservare che non è affatto chiaro il significato dato dal presidente Obama (e prima di lui dal presidente Bush) al termine “ebraico” quando chiede che arabi e palestinesi riconoscano il diritto di Israele di essere uno Stato ebraico: se è nell’accezione del Piano di partizione o di Israele.
I diritti dei palestinesi
In contrapposizione all’invocazione israeliana di diritti internazionalmente non sanciti, i palestinesi auspicano il riconoscimento di una serie di diritti riconosciuti a livello internazionale, che si scontrano con i diritti auto-arrogati di Israele. Ad esempio, i palestinesi affermano il loro diritto di vivere nello Stato ebraico da cui sono stati espulsi, che è un diritto sancito dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 – in cui si afferma al di là di ogni equivoco che: «ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi Paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio Paese» (art. 13.2) – e nella Quarta Convenzione di Ginevra del 1949. Inoltre, la Risoluzione 194 dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, approvata nel 1949, ha stabilito che: i rifugiati [palestinesi] che desiderano tornare alle loro case e vivere in pace con i loro vicini dovranno essere autorizzati a farlo nel più breve tempo possibile, e dovrà essere riconosciuto un risarcimento per le proprietà di coloro che hanno scelto di non fare ritorno e per la perdita o il danneggiamento delle proprietà. Tale risarcimento, in virtù dei principi del diritto internazionale o in via equitativa, dovrà essere corrisposto dai Governi o dalle autorità competenti. Nel 1974 la risoluzione dell’Assemblea generale dell’Onu 3236, approvata il 22 novembre 1974, ha dichiarato che il diritto palestinese al ritorno è un “diritto inalienabile”. Il diritto dei rifugiati al ritorno è stato sancito anche nel 1976 dal Patto internazionale sui diritti civili e politici, dove si afferma che: «nessuno può essere arbitrariamente privato del diritto di entrare nel proprio Paese» (art. 12). I palestinesi oppongono inoltre il Piano di partizione alla confisca delle loro terre da parte di Israele a uso esclusivo delle colonie israeliane, e la Risoluzione 194 – oltre ad altre risoluzioni delle Nazioni Unite – contro la confisca statale di terre a un popolo sulla base di criteri razziali. Di fatto, molti palestinesi invocano gli stessi strumenti giuridici già utilizzati da Israele per reclamare la restituzione delle proprietà rubate e confiscate agli ebrei europei prima della Seconda guerra mondiale. Infine, i gruppi della società civile palestinese in Israele continuano a portare avanti nei tribunali israeliani la loro battaglia legale contro le leggi israeliane persistentemente razziste, fino a oggi con scarso successo. I diritti che Israele rivendica non interessano solo la popolazione palestinese israeliana e i palestinesi rifugiati della diaspora. Sebbene si dica che i negoziati di Israele con l’Autorità palestinese si applichino ai territori occupati della Cisgiordania e della striscia di Gaza (e non a Gerusalemme Est), è chiaro che questi diritti reclamati dagli israeliani si applichino anche in quei territori. Tanto per cominciare, fin dal 1967 Israele ha sostenuto il diritto degli ebrei di colonizzare la Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est – e questo diritto non è negoziabile –. Anzi, per chiarire definitivamente questo punto al di là di ogni equivoco, a partire dalla stipula degli Accordi di Oslo nel 1993 Israele ha più che triplicato la popolazione dei suoi coloni in Cisgiordania e più che raddoppiato il numero dei coloni ebrei sparsi negli altri Territori occupati, inclusa Gerusalemme Est, arrivando a circa mezzo milione di coloni. Israele continua a confiscare le terre palestinesi in Cisgiordania per fare spazio alle proprie colonie e reprime ogni resistenza palestinese al processo di colonizzazione. Inoltre – in aggiunta alla continua confisca di terre palestinesi all’interno di Israele, a Gerusalemme Est e in Cisgiordania – Israele ha esteso il suo regime di leggi discriminatorie varando nuove norme che privilegiano la popolazione ebraica dei coloni in Cisgiordania e Gerusalemme Est a discapito degli arabi palestinesi. Tra queste misure c’è la separazione in stile apartheid tra arabi ed ebrei, l’erezione del Muro, la costruzione di strade riservate ai soli ebrei che attraversano la Cisgiordania e l’accesso differenziato alle risorse idriche, oltre che ovviamente ai terreni sequestrati. Le Nazioni Unite hanno invocato la Quarta Convenzione di Ginevra e approvato numerose risoluzioni (di cui la Palestina più famosa è la 446 votata dal Consiglio di Sicurezza nel giugno 1979) in cui si chiede a Israele, invano, di smantellare i propri insediamenti coloniali e annullare tutte le confische. I leader israeliani sostengono che l’incessante attività di colonizzazione non mette in discussione il loro impegno morale per il raggiungimento della pace. Al contrario, affermano senza mezzi termini che la cessazione dei negoziati è da imputare all’Autorità palestinese. L’attuale primo ministro israeliano, Benyamin Netanyahu, non solo è coinvolto in prima persona nei negoziati ma, come già i suoi predecessori, insiste sul fatto che la richiesta avanzata dall’Autorità palestinese di fermare le colonie prima di avviare i colloqui altro non sia che una violazione dei diritti di Israele e un’imposizione di “precondizioni” inaccettabili. Sulla questione dell’occupazione e sulla possibilità che i negoziati possano porvi fine, Israele ha dichiarato che l’occupazione di Gerusalemme Est – inizialmente allargatasi di dodici volte (da 6 a 70 chilometri quadrati) a spese dei territori cisgiordani e più recentemente arrivata a 300 chilometri quadrati, fino a coprire un buon 10% della Cisgiordania – è un’occupazione permanente, come è permanente l’occupazione della valle del Giordano e di un altro 10% della Cisgiordania che ricade oggi a ovest del Muro. Israele sostiene che i negoziati riguardano un aggiustamento della natura dell’occupazione di ciò che rimane della Cisgiordania, in modo da agevolare una forma di autonomia per i palestinesi che, pur non includendo il diritto di sovranità, gli israeliani sarebbero disposti a riconoscere come “Stato palestinese”. I Palestine Papers recentemente rivelati da «Al-Jazeera» hanno dimostrato che i negoziatori dell’Autorità palestinese hanno offerto diverse concessioni su tutti questi fronti e che, nonostante questa “flessibilità”, la controparte israeliana ha rifiutato tutte le offerte. Anzi, Netanyahu ha insistito, fin dalla fine degli anni ’90, affinché la base dei negoziati non fosse più rappresentata dalla formula land for peace (restituzione di terre in cambio della pace) ma peace for peace (cessazione delle ostilità in cambio della pace), confermando così il rifiuto di Israele di porre fine alle proprie politiche di colonizzazione, occupazione e discriminazione. In tempi più recenti ha proposto di incentrare i negoziati sulla “pace economica”, trasformando così il suo impegno per la pace in una sorta di garanzia morale a salvaguardia dei diritti giuridici auto-arrogati di Israele, sottratti a qualsiasi possibilità di negoziazione. Come ho affermato più sopra, il sionismo e Israele si guardano bene dal generalizzare i principi che giustificano il diritto di Israele di colonizzare, occupare e discriminare, ma al tempo stesso li sbandierano con convinzione in quanto corollari di un principio etico del tutto eccezionale. Non è che nella storia non vi siano stati altri popoli oppressi, ma quello ebraico è stato oppresso più di tutti. Non è che non vi siano stati popoli la cui esistenza fisica e culturale non sia stata minacciata, ma l’esistenza fisica e culturale degli ebrei lo è stata più di tutti. Questa equazione quantitativa è la chiave che dovrebbe spingere il mondo, e in particolare i palestinesi, a riconoscere che Israele deve avere e merita di avere il diritto di colonizzare, occupare e discriminare. Se i palestinesi, o chiunque altro, rifiutano questo principio, significa che sono dediti all’annichilimento fisico e culturale del popolo ebraico, per non dire del fatto che si ergono contro il dio ebraico.
Negoziare il non negoziabile
Il diritto di Israele di difendersi significa anche diritto di salvaguardare i propri diritti (colonizzare le terre palestinesi, occuparle e discriminare i non ebrei) contro qualsiasi minaccia, prima fra tutte la minaccia dei negoziati. Il suo diritto di difesa è il diritto di affermare questi diritti ed è pertanto un diritto sussidiario, se non essenziale, derivante dal suo diritto di essere uno Stato ebraico. La logica è questa: Israele ha il diritto di colonizzare e occupare le terre palestinesi e discriminare i palestinesi, sia nel proprio territorio all’interno dei confini precedenti il 1967 sia nei territori successivamente occupati. Se le popolazioni colpite da queste pratiche resistono e il Governo risponde con la violenza militare causando numerose perdite civili, Israele si sta semplicemente “difendendo” come è nel suo diritto. Prendendo le mosse dall’interpretazione dei diritti data dall’Illuminismo europeo, e in particolare dal discorso di John Locke sui diritti alienabili e inalienabili, secondo il quale le popolazioni indigene, al contrario dei colonizzatori europei, non godono di questi diritti dato che esse vivono in modo parassitario sulla terra senza migliorarla, l’arrogarsi di questi diritti da parte di Israele comporta la presunzione che i palestinesi, in linea con le affermazioni di Locke, non hanno alcun diritto di resistere. Pertanto la difesa etica e giuridica di Israele si muove in questo contesto: Israele ha il diritto di colonizzare, occupare e discriminare in base al principio dell’eccezionalismo e della supremazia coloniale europea, mentre i palestinesi non hanno il diritto di difendere se stessi dall’esercizio israeliano di questi diritti auto-arrogati. Se lo facessero, Israele avrebbe il diritto di difendersi contro chi si difende illegittimamente dall’esercizio legittimo e morale dei suoi diritti. Ma se Israele non ha alcun diritto internazionalmente riconosciuto di colonizzare, occupare e discriminare, né ha un diritto giuridico o morale universalmente sancito di esercitare i principi dell’eccezionalismo, il solo meccanismo attraverso cui possa soddisfare le sue rivendicazioni è l’assenza di responsabilità internazionale o, più precisamente, il rifiuto di rispondere delle proprie violazioni al diritto internazionale e pattizio. Questo rifiuto di assumersi le proprie responsabilità è protetto dalla sua alleanza con gli Stati Uniti, che pongono il veto a tutte le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza in cui Israele è chiamato a rispondere di fronte alla legge internazionale, rendendola così inapplicabile. Il veto più recente risale al febbraio 2011, quando l’amministrazione Obama ha posto il veto a una risoluzione appoggiata dagli altri 14 membri del Consiglio di Sicurezza in cui si chiedeva agli israeliani di fermare la costruzione degli insediamenti in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. È in questo contesto che negli ultimi anni Israele e il Dipartimento di Stato americano (sia sotto Bush sia sotto Obama) si sono affrettati a etichettare come lawfare [ingl. per “guerra legale”, analogamente a warfare, “guerra”, n.d.t.] la scelta palestinese di opporre gli strumenti della legalità e del diritto internazionale ai cosiddetti diritti di Israele. Una guerra legale di cui chiedono l’immediata cessazione e alla quale Israele ha reagito, ad esempio, rigettando la decisione della Corte penale internazionale sulla legalità del Muro nel 2002 [in cui la Corte ordinava lo smantellamento della struttura costruita in territorio cisgiordano e il risarcimento di tutti i danni causati ai palestinesi, n.d.t.] o le accuse di crimini di guerra commessi durante la guerra contro Gaza nel 2008-2009 mosse dal rapporto Goldstone. È significativo che il termine lawfare, entrato nell’uso da una decina d’anni, sia normalmente utilizzato per indicare “lo sforzo di conquistare e controllare le popolazioni indigene attraverso l’uso coercitivo di mezzi legali”. Che Israele e gli Stati Uniti arrivino a mettere i colonizzati palestinesi sul piano di una potenza conquistatrice e a considerare i colonizzatori israeliani ebrei alla stregua di un popolo indigeno la dice lunga sulla gravità della minaccia costituita dai meccanismi legali per i cosiddetti diritti di Israele. La questione dei diritti è in sé complessa e molto controversa, di fatto non ha giurisdizione ed è dibattuta (o non lo è) nell’ambito dei negoziati (o dei non negoziati) delle potenze politiche. Tutto ciò emerge con chiarezza nel caso di Israele e nell’insistenza con cui afferma che i suoi “diritti” non sono negoziabili. Con la recente caduta del regime egiziano e la ancor più recente riconciliazione tra Hamas e Fatah, resta da capire come intenderà muoversi l’Autorità palestinese (Ap). L’Ap conta di incassare un ulteriore riconoscimento dello Stato palestinese da parte dell’Assemblea generale il settembre prossimo. Anche se riuscirà nel suo intento, si tratterà di una mossa dagli scarsi risultati positivi che potrebbe anzi rivelarsi controproducente. Se l’Ap non sospende tutti i negoziati e non cerca una riparazione legale a livello internazionale, alimentando la pressione diplomatica (specialmente da parte degli Stati arabi ed europei) sul Governo americano affinché si unisca al consenso internazionale e ponga fine ai suoi veti, i diritti israeliani continueranno a essere salvaguardati. Ciò che Israele ha affrontato con i palestinesi sul tavolo dei negoziati sono la forma, i termini e la misura entro cui i palestinesi devono riconoscere i suoi diritti in modo inequivocabile. È questa la realtà che ha caratterizzato gli ultimi due decenni di negoziati tra Israele e i palestinesi. Il processo negoziale non ristabilirà mai i diritti internazionalmente riconosciuti dei palestinesi. Al contrario, i negoziati che i palestinesi hanno avviato con Israele vent’anni fa sono caratterizzati dal fatto che una delle parti – i palestinesi – deve, da un lato, rinunciare a tutti i propri diritti internazionalmente riconosciuti e, dall’altro, riconoscere i diritti auto-arrogati di Israele, che non sono riconosciuti né dal diritto internazionale né da qualsiasi altro Paese. Sessantatre anni dopo la fondazione della prima colonia ebraica, questo atto palestinese non solo fornirà una prima parvenza di legittimità alle rivendicazioni israeliane ma di fatto costituirà anche, nientemeno, che il primo riconoscimento internazionale dei diritti auto-arrogati di Israele. Il quale non dovrà dare nulla in cambio.
14 maggio 2011
*Joseph Massad è professore associato di Politica araba moderna e Storia intellettuale presso la Columbia University di New York.
A proposito del riconoscimento preventivo dello Stato palestinese
di Wasim Dahmash*
Queste brevi annotazioni riguardanti l’iniziativa della cosiddetta Anp (Autorità nazionale palestinese, alias Olp o Fatah) atta a chiedere all’Assemblea generale delle Nazioni Unite il riconoscimento di uno Stato palestinese da istituire su una parte del territorio palestinese, costituivano un messaggio di posta elettronica il cui destinatario mi ha chiesto di rendere pubblico. Rileggendo il messaggio ho ritenuto di lasciarlo nella sua forma originaria (punto 1), alla quale però aggiungo altre quattro veloci riflessioni (punti 2-5). 1. Mi limito a osservare che, almeno dalla morte di Arafat in poi, le azioni dell’Anp (Olp-Fatah) non sono più solo indotte da Israele, ma piuttosto coordinate con gli organi dello Stato israeliano, vedi ad esempio l’organizzazione e il ruolo della polizia palestinese, e in politica internazionale basti ricordare il caso del rapporto Goldstone. Non vedo perché un’azione politica piuttosto rilevante come quella annunciata non debba essere come altre preventivamente concordata. I funzionari che guidano l’Anp (OlpFatah) non sono affatto persone stupide e sanno benissimo che non potranno disporre, come vorrebbero, di uno Stato palestinese autonomo in accordo con Israele. Allora a che cosa mirano? Si accontentano di uno Stato “temporaneo”, come è nei programmi israeliani, o più modestamente di continuare a gestire l’Anp, così com’è, o più realisticamente di “tirare a campare” per qualche anno ancora. Tutto l’establishment israeliano ha più volte ripetuto che uno Stato palestinese entro la cosiddetta “linea verde” – vale a dire le linee di armistizio del 1949 (leggi Cisgiordania e Gaza) – non è possibile, ma uno Stato palestinese sarebbe accettabile, anzi auspicabile, entro confini da stabilire, perché nei territori occupati nel 1967 delimitati dalla “linea verde” vivono oggi oltre 500.000 ebrei israeliani che non accetterebbero di essere cacciati via o di diventare cittadini palestinesi. La soluzione? Consisterebbe in uno scambio di territori. I territori cisgiordani abitati da israeliani andrebbero annessi a Israele e i territori abitati da “arabi israeliani” sarebbero attribuibili al costruendo Stato palestinese. Ovviamente questo dovrà essere un processo da concordare tra le parti attraverso un negoziato che sarà difficile, complesso e soprattutto molto lungo. Tappa obbligatoria di questo negoziato è definire chi sono i soggetti della cittadinanza palestinese e della cittadinanza israeliana. Il passaggio dei coloni israeliani in Cisgiordania alla cittadinanza palestinese sarebbe escluso perché non lo vogliono e perché quei territori sono destinanti, nell’ambito dello scambio, a Israele. Il passaggio degli “arabi israeliani” alla “cittadinanza palestinese” sarebbe necessario perché loro sono palestinesi, così si realizzerebbe l’unità del popolo palestinese, e perché quei territori sarebbero destinati al virtuale “futuro Stato palestinese”. In caso di mancato raggiungimento di un accordo globale di pace e sul futuro assetto dello Stato palestinese, come è nei programmi israeliani, i palestinesi oggi cittadini israeliani che nel frattempo avranno perso la cittadinanza israeliana avranno bisogno di un permesso di soggiorno per continuare a soggiornare in “Israele”. In altre parole Israele acquisisce una carta legale per espellere i palestinesi sopravvissuti alla pulizia etnica del 1947-1949.
La nascita virtuale e il riconoscimento di uno Stato palestinese, sotto il profilo legale, è necessario a Israele perché abbassa il tetto delle rivendicazioni palestinesi. A tutt’oggi, secondo il diritto internazionale, i profughi palestinesi hanno diritto a ritornare alle loro terre (Risoluzione 194). Il riconoscimento di un “futuro” Stato palestinese limiterebbe questo diritto ai confini (virtuali) del costruendo Stato (virtuale). La proclamazione di uno Stato palestinese su una parte del territorio della Palestina mandataria renderebbe automaticamente legale l’esistenza sul rimanente territorio dello Stato coloniale tuttora illegale secondo la Carta delle Nazioni Unite – anche se riconosciuto da molti Stati membri dell’Onu – e sarebbe ammesso alla stessa organizzazione alla condizione di applicare la 194 (Il ritorno dei profughi). Infatti la 181, presa a pretesto per “legalizzare” lo Stato d’Israele, non è una “risoluzione”, ma è una “raccomandazione” di un “comitato ad hoc” indirizzata all’Assemblea generale ed è in aperto contrasto con la carta delle Nazioni Unite. Si tratta semplicemente di un escamotage legale. La “legalizzazione” dell’assetto politico del territorio palestinese legalizzerebbe l’assetto geopolitico in Medio Oriente scaturito dagli accordi Sykes-Picot. Ad esempio, lo Stato che potrebbe vantare maggiore legittimità nella regione siriana sarebbe quello sorto per esclusiva volontà dei suoi abitanti in un momento di lotta popolare ed è quello che oggi non c’è, cioè il Regno di Siria proclamato dal Congresso popolare pan-siriano di Damasco nel 1918 in cui deputati eletti in rappresentanza di tutte le regioni siriane (oggi Siria, Libano, Palestina/Israele, Transgiordania, parte della Turchia) e di tutte le comunità confessioni, linguistiche, rurali e urbane, avevano proclamato l’indipendenza della Siria dall’impero ottomano. L’assetto odierno garantisce un’instabilità permanente, una frammentazione progressiva, una dipendenza economica crescente e una sudditanza politica delle comunità della regione (non più una nazione, non più un popolo, non più popoli) nei confronti dell’Impero e delle sue manifestazioni corporative e statuali. La frammentazione politica agisce da acceleratore della frammentazione sociale e si nutre di essa, vedi lo scontro giordano-palestinese del 1970 e quello latente che ogni tanto riesplode, oppure gli infiniti conflitti libanesi ecc. Il laboratorio siriano è stato esteso all’Iraq ecc. La trattativa per uno Stato palestinese dovrebbe inoltre includere un ventaglio di forze palestinesi, perché si è visto che trattare con una sola parte non ha portato alla pace desiderata. In altre parole bisognerà coinvolgere oltre a Fatah anche Hamas, la quale organizzazione, per essere ammessa, dovrà però preventivamente soddisfare alcune condizioni che Olp-Fatah aveva a suo tempo fatto sue prima di essere ammessa al tavolo dei negoziati. Tra queste condizioni primeggiano il riconoscimento dello Stato d’Israele e la rinuncia al terrorismo. Vale a dire la rinuncia al 78% del territorio palestinese e la rinuncia al diritto alla resistenza sancito dalle Nazioni Unite. Tuttavia il coinvolgimento di Hamas sarà possibile solo in un quadro di accordo con Anp-Fatah, un accordo dal quale resteranno esclusi quelli che non accetteranno le condizioni imposte (ci sarà sempre qualcuno) e che diventeranno il nemico da combattere con beneficio di Israele e della sempre più accelerata frammentazione palestinese. L’establishment israeliano sa benissimo che l’idea dello Stato è corrosiva del concetto di “liberazione”. A questo è servita negli anni e a questo serve oggi. La stragrande maggioranza dei palestinesi oggi vorrebbe uno Stato. Pochi i palestinesi che non lo vogliono. È mia opinione che i maggiori rappresentanti dei palestinesi dei territori occupati nel 1967, vale a dire, Fatah e Hamas, pur con tutti i distinguo del caso e con tutte le dovute differenziazioni, sono due organizzazioni di indirizzo populista. Questa situazione è decisamente favorevole a Israele che cerca di trarne tutti i possibili vantaggi. Tuttavia, questi non sono gli aspetti della questione per cui dubito dell’opportunità di chiedere il riconoscimento di uno Stato palestinese virtuale.
Un aspetto più importante, a mio avviso, è questo: uno Stato che si fonda in base a un accordo tra Governi (se non è frutto della lotta popolare), non per azione dei suoi cittadini, non può realizzare il diritto all’autodeterminazione, né quella nazionale né comunitaria né tanto meno individuale. Altro elemento non meno importante del precedente è questo: il diritto all’autodeterminazione è un diritto inalienabile, cioè, come ci insegnano i giuristi, non frazionabile, e questo significa che non è negoziabile, non può essere oggetto di negoziato, va solo e semplicemente realizzato. 2. Appare sempre più evidente che le azioni della politica internazionale, come i grandi cambiamenti a livello economico-finanziario, si realizzano lungo direttive dove non esiste nessun controllo pubblico di nessun tipo, né popolare (stampa, partiti, associazioni ecc.) né rappresentativo parlamentare e a volte nemmeno statuale. Cioè si agisce al di là delle sedi istituzionali palesi. Esiste un divario sempre più profondo tra la realtà e la rappresentazione che ne viene data. Gli esempi sono ormai innumerevoli. Un esempio immediato può essere quello della guerra in Libia. L’opinione pubblica delle nazioni coinvolte nella guerra non ha la percezione di vivere uno stato di guerra, non solo per l’enorme divario nelle armi impiegate – il controllo dei cieli rende scontato l’esito – ma anche per il totale controllo delle informazioni per cui viene celato il ruolo degli eserciti delle nazioni coinvolte, come sono celati le cause e gli obiettivi della guerra. In altre parole: una realtà virtuale si sovrappone a una realtà tangibile fino a coprirla del tutto. Una cosa simile si presenta nella situazione palestinese. Il cosiddetto processo di pace (realtà virtuale) ha coperto la strisciante colonizzazione del territorio palestinese e la progressiva sostituzione della popolazione autoctona (realtà tangibile). Allo stesso modo, le manovre politiche dell’Anp/Olp-Fatah si svolgono su un piano di realtà non tangibile. Esempio: la lotta popolare contro il muro, contro il sequestro delle terre, contro le demolizioni delle case ecc. si svolge sullo stesso piano reale su cui si svolgono le azioni repressive, cioè nella realtà tangibile, anche se viene coperta sempre più dalla realtà virtuale. È altamente probabile che la richiesta di riconoscimento di uno Stato palestinese non sarà presentata alla prossima sessione dell’Assemblea generale dell’Onu. In caso contrario è probabile che la richiesta stessa non venga ammessa nell’ordine del giorno. In ogni caso entra a far parte della realtà virtuale. 3. L’occupazione e la spartizione dei territori dell’impero ottomano è avvenuta con la guerra. La spartizione, avversata dalle popolazioni, ha acquisito veste legale per imposizione. I territori del regno di Siria sono stati divisi tra la Francia e l’Inghilterra. Le due potenze hanno frammentato ulteriormente il territorio, creando nella Siria meridionale due entità statuali: Palestina e Transgiordania. Nel 1922 l’Inghilterra legalizzò il nuovo assetto presso la “bottega legale” della Società delle Nazioni. Nel territorio tra il Mediterraneo e il fiume Giordano è nato lo Stato di Palestina. Il territorio di questo Stato continua a essere occupato da una potenza occupante che è espressione e continuazione della potenza occupante madre, nata per sua dichiarata volontà. I palestinesi, cioè la comunità umana che ha modellato la storia e il paesaggio culturale di quel territorio, hanno diritto di reclamare tutto il loro territorio. La legalizzazione di una spartizione della Palestina è ovviamente a spese del popolo palestinese, nega i suoi diritti fondamentali, riconosciuti a tutti i popoli. La Raccomandazione 181 dell’Onu non legalizza la spartizione della Palestina ed è contraria allo spirito e alla lettera della Carta delle Nazioni Unite (Ogni popolo ha diritto all’autodeterminazione). 4. L’Autorità Nazionale Palestinese (leggi Olp-Fatah) è nata in base agli accordi tra il Governo israeliano e l’Olp-Fatah, detti Accordi di Oslo. Questi accordi sono stati diPalestina chiarati “decaduti” da una delle due parti contraenti, il Governo israeliano. Sono quindi legalmente nulli. L’Anp non ha nessuna veste legale ma, cosa ben più importante, non è un’autorità legittima, nemmeno sul piano rappresentativo degli abitanti delle regioni occupate nel 1967, che sono circa il 30% dei palestinesi. Infatti, i deputati eletti nelle liste di Hamas al Consiglio Legislativo Palestinese, sono quasi tutti nelle carceri israeliane! Per non dire che le elezioni furono vinte da Hamas e non da Fatah e che il mandato del capo dell’Anp-Fatah, Mahmud Abbas Abu Mazen, è scaduto da anni. A maggior ragione l’Anp non rappresenta i sei o sette milioni di palestinesi in esilio (di cui 4.820.229 profughi registrati, secondo le statistiche Onu), e nemmeno i palestinesi che vivono nei territori dichiarati Stato d’Israele, i cosiddetti “arabi israeliani” (oltre 1.300.000 persone). In poche parole l’Anp non ha nessuna veste, nessun diritto a negoziare a nome del popolo palestinese. E tuttavia nessun Governo legittimo e legalmente riconosciuto è autorizzato a ledere i diritti inalienabili della popolazione che governa o quelli di altre. 5. Gli Stati hanno ragione di essere in quanto istituzioni, volute e accettate dai cittadini, atte a realizzare e garantire i diritti degli stessi cittadini. Uno Stato che “imbroglia” sui diritti fondamentali perde una parte della sua legittimità. Lo Stato che lede in parte o in toto i diritti dei cittadini, li nega o peggio li cede, perde ogni legittimazione. Uno Stato che compie una “pulizia etnica” e la perpetua nel tempo compie un crimine contro l’umanità e come tale va trattato fino a quando non riconoscerà i propri crimini e cercherà sinceramente di porvi rimedio. Il diritto dei profughi palestinesi al ritorno in tutta sicurezza alle loro case e nelle loro città e il diritto all’indennizzo dei danni subiti nei sessantatre anni trascorsi dal loro esilio è il primo passo da compiere per cominciare un percorso che porti a una convivenza pacifica, paritaria e civile tra i cittadini autoctoni, i palestinesi e i cittadini acquisiti, gli israeliani. Le formule possono essere di diversi tipi, e tutte possono rivendicare una uguale legittimità, ma il nocciolo della questione resta sempre uno e uno solo: il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese.
17 luglio 2011
* Wasim Dahmash (Damasco 1948) è docente di Lingua e Letteratura araba presso la Facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell’Università degli Studi di Cagliari. Ha insegnato (1985-2006) Dialettologia araba all’Università di Roma “La Sapienza”. Si occupa principalmente di traduzione letteraria, di dialettologia araba e di didattica dell’arabo parlato con particolare riferimento ai dialetti dell’area siro-palestinese. Nel campo della traduzione letteraria ha pubblicato decine di romanzi, racconti brevi e poesie tradotti dall’arabo in italiano e dall’italiano in arabo.
Risvolti e prospettive del riconoscimento dello Stato palestinese
di Wasim Dahmash*
Faccio due osservazioni preliminari. La prima, che può sembrare banale ma che ritengo utile fare in questo contesto e in questo momento, è questa: la società palestinese, pur frammentata, divisa, dispersa e frastornata da una catastrofe che le è capitata addosso dall’inizio del ventesimo secolo e che la perseguita fino a oggi, è una società che comunque conserva, nonostante tutto, molti tratti di normalità. Fa parte della normalità avere opinioni diverse ed essere di orientamento politico diverso. Le mie opinioni sono − almeno credo, forse spero − molto minoritarie fra i palestinesi. Un esempio: io sono tra coloro − pochi penso − che non amerebbero vedere uno Stato palestinese, non ne vedono nessuna necessità. Si tratta ovviamente di un’opinione minoritaria, ne sono consapevole. Sono anche uno dei pochi che non riconoscono l’Autorità Nazionale Palestinese (Anp) perché pensano che sia soltanto un ingranaggio della macchina dell’occupazione, del sistema dell’occupazione. L’occupazione non è la presenza di un esercito, la presenza di soldati e carri armati, di tutti gli strumenti di morte e di oppressione. Questo è solo un aspetto del sistema. Il sistema è molto più complesso e oggi agisce a livello non soltanto territoriale ma anche a livello politico in senso lato, cioè a livello globale. Il sistema di occupazione e i suoi ingranaggi sono possibili non per una particolarità del territorio palestinese o della società palestinese o degli israeliani. Il problema non riguarda solo e soltanto la Palestina e i palestinesi. Riguarda tutti noi, e con tutti noi intendo dire il sistema nella sua globalità e qui accenno a un fatto che ritengo importante. Non riconosco l’Anp, non riconosco nessuna autorità al capo di questa Autorità, a tutto il sistema, soprattutto per ragioni etiche, morali; per ragioni etiche perché non ammetto, non accetto quel tratto di servilismo che il sistema nella sua globalità impone ai gruppi dirigenti ovunque nel mondo. Ciò succede anche in un Paese come l’Italia, seppure con gradazioni diverse – è chiaro – e con risultati diversi. Il servilismo dei gruppi dirigenti, delle classi dirigenti, il servilismo verso il sistema, verso il più forte o il più alto nella scala gerarchica è ormai un tratto comune del sistema capitalistico mondiale oggi, nella sua fase attuale. Nel caso palestinese, il servilismo, che si ottiene attraverso la corruzione e il ricatto, spesso con una combinazione ben dosata fra corruzione e ricatto, arriva a risultati aberranti. Diversi da quelli che si hanno in società molto più sviluppate, più libere − come può essere la società di un Paese industrializzato o in parte industrializzato − ma comunque molto più articolate e complesse, come può essere l’Italia. Per fare un esempio, tutti possiamo osservare che in politica estera tutta l’Europa è semplicemente asservita agli interessi degli Stati Uniti. È così lampante, così evidente che non ha bisogno di essere detto. La seconda premessa è questa: non sono assolutamente prevenuto verso qualsiasi tipo di soluzione del conflitto arabo-israeliano o del conflitto israelo-palestinese. Qualsiasi soluzione mi va bene purché ci sia una soluzione, ma una soluzione deve basarsi principalmente sui diritti dell’uomo, sui diritti civili e sui diritti politici e quindi anche sui diritti della persona. Il discorso riguarda il concetto che si ha dello Stato. Lo Stato è uno strumento accettato dai cittadini di cui si servono per organizzare la loro vita economica e sociale, cioè per organizzare i rapporti sociali, in altre parole per disciplinare l’interdipendenza del diritto di ciascuno e delle comunità. Che cosa significa rispetto dei diritti umani? Significa ad esempio che ognuno possa avere il diritto di stare in casa propria. Ciò vuol dire che i 5 milioni di profughi palestinesi devono avere il diritto al ritorno alle loro case. Significa avere il diritto di circolare nel proprio territorio. La libera circolazione è un diritto umano garantito dalla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo delle Nazioni Unite e, almeno all’interno dei confini degli Stati, gran parte della popolazione mondiale, se non per ragioni economiche, riesce a circolare. Nel caso palestinese le persone non hanno il diritto di muoversi! Realizzare il diritto alla libera circolazione vuol dire: demolizione del muro, togliere i check point, permettere ai profughi di ritornare. I diritti civili comprendono il diritto di scegliere come vivere, come organizzarsi, come utilizzare l’acqua del proprio territorio, non vedersi negato il diritto persino all’acqua, com’è nel caso palestinese. Un diritto principale tra quelli politici è la libertà, la capacità, essere capaci, essere nelle condizioni di poter scegliere il modo in cui organizzare la vita sociale e politica, poter scegliere che tipo di istituzioni creare. Fatte queste due premesse passo a esaminare per sommi capi la questione per cui siamo qui: quella di discutere sull’iniziativa “palestinese” all’Onu. Mi preme sottolineare un aspetto di questa iniziativa: gran parte degli eventi a cui noi crediamo di assistere sono eventi virtuali, inesistenti. L’iniziativa “palestinese” è presentata dalla stampa come una richiesta di riconoscimento dello Stato palestinese. Cerchiamo di essere precisi. Sui contenuti di questa richiesta non si è detto niente fino al discorso del capo dell’Anp qualche giorno fa alla televisione, quando ha precisato che l’Anp andrà a chiedere all’Onu un seggio di membro a pieno diritto. Ciò tecnicamente non è possibile. Dal 1974 l’Olp ha ottenuto un seggio di osservatore alle Nazioni Unite. Il seggio è oggi occupato dall’Anp che è nei fatti una metamorfosi dell’Olp. Nel 1974, in preparazione della conferenza internazionale sulla Palestina, che poi si è svolta a Ginevra ma fu un fallimento, Arafat, allora capo dell’Olp, fu invitato all’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Era la prima volta che il capo di un’organizzazione, non riconosciuta fino a quel momento, interveniva davanti all’Assemblea generale. Da quel momento l’Olp ottenne il seggio di osservatore permanente alle Nazioni Unite. Precisiamo anche un’altra questione: lo Stato palestinese esiste formalmente sin dal 1922. Nel 1922 l’organismo internazionale a cui si faceva riferimento come fonte della legalità internazionale, la Società delle Nazioni, aveva dato mandato alla potenza occupante del territorio palestinese, cioè alla Gran Bretagna, di amministrare quel territorio in previsione dell’indipendenza. Lo Stato palestinese è nato allora, con un proprio territorio, una propria polizia e una propria moneta. Questo Stato, occupato, fu poi smantellato dalla stessa potenza occupante che lo doveva amministrare e portare all’indipendenza; non l’ha portato all’indipendenza, l’ha consegnato al movimento sionista che ha continuato a distruggerlo, a frammentarlo e a commettere un genocidio continuo e costante nel tempo che non è cominciato nel 1948 ma molto prima. Il 1948 è una data simbolo perché rappresenta una svolta, però noi sappiamo benissimo che la storia non comincia in certe date e non finisce col calendario; la storia è un processo e questo processo è iniziato molti anni prima con l’occupazione militare del territorio tra il 1917 e il 1918. Lo Stato palestinese, disaggregato e distrutto, la cui popolazione è stata in parte massacrata fu ri-proclamato di nuovo da parte dell’Olp nel 1988, dopo l’inizio dell’intifada, cioè la grande insurrezione popolare nei territori occupati. Lo Stato palestinese allora proclamato ha avuto il riconoscimento di gran parte dei Governi del mondo. I Governi che riconoscevano lo Stato di Israele fino agli accordi di Oslo, cioè fino al 1993, erano 41, mentre quelli che riconoscevano lo Stato di Palestina erano 120. Accenno molto rapidamente alla questione dell’esistenza o inesistenza degli Stati virtuali. Che cosa intendo dire? In questo momento lo Stato di Palestina è uno Stato virtuale perché non c’è un Governo che ha l’autorità e il controllo del territorio. D’altra parte possiamo chiederci se esiste davvero oggi, tranne che in pochi casi, un Governo che controlli interamente il territorio del proprio Paese. Lo Stato egiziano, di lunghe tradizioni, di istituzioni antiche, controlla il Sinai? Il Sinai continua a essere effettivamente occupato dagli israeliani con la presenza di basi militari israeliane e americane. È soltanto un esempio. La realtà virtuale viene a sovrapporsi sempre di più sulla realtà tangibile, su quella che viviamo direttamente, al punto da coprirla completamente. Pensate che in questo momento ci sono diverse guerre nel mondo di cui non si parla affatto. Per quanto riguarda il mondo arabo da almeno 9 mesi c’è un genocidio nello Yemen di cui nessuno parla, ci sono centinaia di migliaia, milioni di manifestanti nelle strade di tutte le città yemenite che chiedono di cambiare il regime, la fine di un regime, e vengono bombardati coi caccia e con gli elicotteri. Di fronte al silenzio che avvolge un fatto così importante, come mai un’iniziativa di un gruppetto di potere di una cittadina occupata come Ramallah ha questa grande cassa di risonanza? La realtà, quella tangibile, quella che si può toccare con mano, viene coperta da una coltre di inesistenza. Allora mi viene il dubbio che questa iniziativa sia concordata preventivamente in un gioco dei ruoli con le autorità americane, che sia stata suggerita, molto probabilmente, da alcuni istituti di studi americani e israeliani; è un ipotesi che può sembrare assurda, però basti pensare che l’Anp, che aveva perso ogni credibilità nei territori occupati, è riuscita con quest’iniziativa tanto propagandata a riconquistare credibilità molto rapidamente. Da molti anni il gruppo dirigente oggi dell’Anp − ieri dell’Olp e prima ancora di Fatah − ha insistito continuamente sulla questione dello Stato. La soluzione del conflitto, per loro, risiede nella creazione di uno Stato. La soluzione del conflitto − concordo pienamente con quanto ha detto molto chiaramente Gideon Levy − non risiede nella creazione di uno Stato ma nella realizzazione dei diritti, o almeno in una parte dei diritti. La questione dello Stato è una questione marginale, una questione di poca importanza. Gli Stati oggi affermati da molti anni non riescono a governare nemmeno la loro moneta, non sono in grado di gestire quasi niente. Lo Stato oggigiorno è qualcosa di quasi intangibile, è opaco. Il problema è quello di salvaguardare i diritti umani e prima di tutto il diritto alla vita. Questo vuol dire che bisogna imporre a Israele di non sparare, non deve uccidere. Bisogna salvaguardare il diritto di ciascuno a stare nel proprio territorio, quindi bisogna impedire a Israele di demolire le case! Una parte fondamentale della storia dell’umanità, che è la storia della Palestina, viene modificata. Il paesaggio culturale è profondamente modificato non solo dal punto di vista geografico, territoriale e urbano, ma anche umano. Tutto è modificato per dar credito a una leggenda, a un mito, a una versione della “nostra storia”, dove con “nostra” intendo “noi uomini bianchi”. E qui mi allaccio al discorso di Gideon Levy e al concetto di de-umanizzazione da lui descritto prima, e che ritengo importante. I palestinesi vengono de-umanizzati per meglio dimostrare la “nostra verità”, la “nostra” versione della storia. La visione di Terrasanta come appendice dell’Europa, come qualcosa di “nostro”, è nata ben prima del movimento sionista, è insita nella cultura rinascimentale europea. E qui molto rapidamente accenno a un fatto: quando si parla della democrazia israeliana si parla di qualcosa che riguarda tutti i sistemi politici rappresentativi. Questi, nella loro forma attuale, nascono in Europa dove è nato il Rinascimento, ed è qui che si sono sviluppate quelle idee che hanno portato a quel sistema. Ma “democrazia” ha sempre significato, nella sua versione europea moderna, garanzia dei diritti all’interno e negazione degli stessi diritti all’esterno. Non si può negare che il sistema dell’Inghilterra è stato sempre, negli ultimi secoli, un sistema democratico e di diritti per i propri cittadini, ma non si può negare nemmeno che lo stesso sistema della stessa Inghilterra ha massacrato decine, forse centinaia di milioni di esseri umani. L’Italia oggi ricorda il 100° anniversario della conquista della Libia alla corona dei Savoia. In Libia sono state sperimentate tutte le armi che poi sono state impiegate nella Prima guerra mondiale e sotto il fascismo sono state sperimentate altre armi che sono state usate su larga scala nella Seconda guerra mondiale. La sovrapposizione della realtà virtuale ci sta soffocando perché nasconde quello che avviene nella realtà. La manipolazione dell’opinione pubblica riguarda tutti, non soltanto gli israeliani. La de-umanizzazione diventa possibile non per una “natura malvagia” degli israeliani ma perché subiscono un lavaggio del cervello continuo che si attua celando la realtà tangibile e sovrapponendo a essa una realtà virtuale. Il laboratorio che è stato il conflitto israelo-palestinese si sta diffondendo su scala mondiale, cioè si costruisce un evento e gli si dà una certa interpretazione e poi tutti devono subirne le conseguenze. Sono meccanismi per creare il consenso. Non sfugge a questo la messa in scena della richiesta di riconoscimento che ha delle implicazioni estremamente gravi. Tanto per cominciare il fatto che il gruppo che guida l’Anp abbia accettato precedentemente il principio dello scambio di territori. Allora quali territori gli israeliani possono scambiare con i palestinesi? Israele è uno Stato che esiste sul territorio della Palestina storica, non ha territori da scambiare. C’è un aspetto ancora più grave: che lo scambio di territori dovrà portare, nel disegno israeliano, a scambio di popolazioni, e scambio di popolazioni significa continuare la pulizia etnica in modo che i palestinesi stiano da una parte e gli israeliani dall’altra. Non è la prima volta che succede nella storia, per citare alcune delle ultime, ad esempio, lo scambio di popolazioni fra Grecia e Turchia dopo la Prima guerra mondiale oppure fra India e Pakistan nel 1949. Ciò ha comportato miseria, morte e distruzione. Perché il gruppo dirigente dell’Anp continua su questa strada? Perché non ha alternative, perché è un ingranaggio del meccanismo che obbedisce ai dettami della potenza occupante, ne fa parte. Come mai si è arrivati a questo grado di servilismo? Basta imboccare la strada, basta accettare una tangente, basta accettare un ricatto e la strada è aperta. La cosa è sperimentata, non solo in Palestina, è sperimentata ovunque. Intervento revisionato dall’autore, tenuto il 23 settembre 2011 a palazzo Bastogi a Firenze nell’ambito dell’iniziativa «Risvolti e prospettive del riconoscimento dello Stato palestinese».
L’Olp esiste per “liberare” e non per legalizzare la partizione
di Salman Abu Sitta*
La nuova leadership sarà ben preparata sulla storia e la geografia della Palestina e sui diritti del popolo palestinese e sarà pronta a difenderli. Se non dovesse prevalere la saggezza politica, se non si prenderanno decisioni cruciali nelle quali tutti i palestinesi saranno rappresentati, se non impariamo dagli errori del passato modificando le politiche precedenti, i metodi e le persone che le decisero, allora ci imbarcheremmo in un disastro ancora più disastroso di Oslo. Se l’obiettivo del riconoscimento di uno “Stato palestinese indipendente” fosse stato perseguito prima del 1947 lo avremmo applaudito con entusiasmo, avremmo sacrificato le nostre vite per questo, come fece il nostro popolo dal 1920 in poi. La Lega delle Nazioni riconobbe nell’art. 22 della Carta dell’Indipendenza della Palestina lo Stato palestinese dal mare al fiume, dal Ras al Naqura a Um Rashrash, e lo collocò nella categoria A del Mandato, come l’Iraq. Ciò significava uno Stato indipendente che richiedeva assistenza e consiglio da parte del Governo del Mandato per costruire le sue istituzioni. L’Iraq era il gemello della Palestina con la differenza che l’Iraq divenne uno Stato indipendente e la Palestina no. Il Mandato britannico minò queste fondamenta legali aprendo all’ immigrazione ebraica in Palestina e non permettendo una rappresentanza parlamentare palestinese benché la popolazione araba fosse la maggioranza. In seguito i sionisti minarono le fondamenta occupando la Palestina in due fasi, nel 1948 e nel 1967. La grande differenza tra il periodo del Mandato e i nostri giorni è che prima del ’47 il popolo palestinese risiedeva nella sua terra natia nella quale era radicato da migliaia di anni. La richiesta di indipendenza nel Paese era perciò scontata così come lo era nelle colonie britanniche e nei protettorati. Oggi il movimento sionista, servendosi della forza bruta, ha realizzato il suo mito secondo il quale la Palestina era “una terra senza popolo” e per questo ha portato avanti la pulizia etnica della popolazione palestinese. È per questo che la situazione che i palestinesi devono affrontare è oggi diversa. La priorità ora deve essere riportare la Palestina a essere di nuovo la terra nella quale vive il suo popolo, come per gli altri popoli nel mondo. Poi la popolazione potrà lottare per l’ indipendenza e la libertà nella sua terra natale. Non fu un caso che David Ben-Gurion, ancor prima della dichiarazione di indipendenza dello Stato di Israele e del termine del Mandato, portasse a compimento la più vasta e organizzata pulizia etnica nella storia moderna, espellendo dalle loro case la popolazione di 220 città e villaggi in Palestina: nella pianura della costa, in Marj Bin Amer e Tiberiade e poi successivamente la popolazione di altri 400 villaggi. Non fu un caso che l’appartenenza di Israele all’Onu fosse condizionata da due requisiti: il rispetto della Risoluzione Onu 181 sulla partizione della terra, e cioè: Israele doveva ritirarsi; il rispetto della Risoluzione 194 (un anno dopo la Risoluzione sulla partizione) sul ritorno dei profughi palestinesi alla loro case in ogni parte della Palestina occupata dagli israeliani. Nei 93 anni dalla Dichiarazione di Balfour, il piano ebraico di accaparrarsi sempre più terra è stato un obiettivo costante. Invece di lasciare l’80% della Palestina storica a uno Stato arabo − come suggerito dalla Commissione Royal (Peel) del 1937 − o il 45% − come proposto dal Piano della partizione del 1947 − la parte palestinese del territorio è ridotto ad appena il 20% della terra originaria e questo è il massimo della richiesta fatta dall’Autorità palestinese (non dal Plo propriamente costituito); è stato decimato ulteriormente ad appena il 5% della Palestina nel piano di Netanyahu. È chiaro che nessun piano Onu per la partizione può pretendere o accettare la pulizia etnica di una parte della popolazione a favore di un’altra. Perciò non fu un caso che la comunità internazionale insistette perché Israele, come condizione per la sua ammissione all’Onu, dovesse riparare alla pulizia etnica attraverso il ritorno dei palestinesi alle loro case.
Per questa ragione il ritorno dei profughi è un pre-requisito a ogni ripresa di discussione, perché “il diritto al ritorno” è un diritto inalienabile e di livello superiore al riconoscimento di sovranità sull’intera o su una parte della terra natia. Questo riconoscimento è un atto politico che può variare a seconda delle circostanze politiche. È sufficiente osservare i Paesi suddivisi o riunificati specialmente in Europa durante il XX secolo. Il diritto al ritorno però non è solo sacro per i palestinesi ma è anche un diritto legale iscritto nella legge internazionale che non può essere revocato od oggetto di contrattazione, non è un bene in vendita. È anche un diritto individuale. Il principale obiettivo dell’Olp era la “liberazione” della Palestina non la sua partizione. L’Olp non è certo stata creata per dare legittimità alla divisione della Palestina. La liberazione della Palestina non vuole necessariamente dire un’operazione militare. Può essere ottenuta attraverso altri mezzi come si è visto in India e in Sudafrica. Ciò che si intende per liberazione è il porre fine al progetto di insediamento sionista con le sue politiche razziste che hanno versato il sangue di innocenti e distrutto il patrimonio storico palestinese. La liberazione libererà anche gli ebrei dal sionismo che ha creato in loro uno stato di paura e di terrore. Come ha scritto Alan Hart: il sionismo è «il vero nemico degli ebrei». Quindi che cosa dovremo aspettarci il prossimo settembre quando sarà presentata la richiesta palestinese per una piena appartenenza come membro Onu basandosi sul 20% della Palestina storica? Perché Israele ha dato ordini ai suoi ambasciatori, alla sua lobby nell’occidente e ai suoi media obbedienti di dare il via a una guerra contro il riconoscimento della Palestina? Se il riconoscimento sarà negato rimarrà lo status quo ma se venisse accolto quale sarà la differenza? È perfino inutile dire che la Nato non sarà mai usata per applicare la volontà della comunità internazionale, come invece è stato fatto in altri casi. L’Onu potrebbe condannare l’aggressione e l’occupazione di un territorio “di uno Stato membro indipendente”. Ma una tale condanna semplicemente andrà ad aggiungersi alla lunga lista delle innumerevoli risoluzioni ignorate dallo Stato sionista. Protetto dagli Usa, Israele potrà continuare senza incorrere in alcun rischio di sanzioni. Ma ciò che è più pericoloso e probabile è che si aprirebbe la strada per “negoziati di pace” sostenuti da Europa e Usa per accettare un mini-Stato palestinese. Possiamo già immaginare: dopo “duri negoziati” e “concessioni dolorose” un accordo verrà trovato e le celebrazioni verranno tenute nel giardino della Casa Bianca con strette di mano e sorrisi tutti intorno. Questo mini-Stato sarà una non-entità, con nessuna abilità a difendersi, nessun controllo sui suoi confini, spazio aereo e terrestre, nessun controllo sulle sue risorse d’acqua e i suoi confini finali saranno concordati attraverso “scambi di territorio” e probabilmente anche il “trasferimento” forzato di persone. Questo è precisamente il mini-Stato che Shimon Peres ed Ehud Olmert sognavano e ritenevano fosse assolutamente necessario perché, altrimenti, “Israele sarebbe finito”. Le parole chiave in questo scenario sono “scambio di territorio”. Un progetto che Netanyahu e il suo Ministro degli Esteri razzista Avigdor Lieberman sostengono sia stato studiato per anni da un team guidato dal russo Gideon Biger dell’Università di Tel Aviv. Prevede l’espulsione dei palestinesi della stessa Israele (che sono un quinto della popolazione di Israele) e il rendere la vita così intollerabile ai palestinesi della Cisgiordania in modo che se ne vadano “di loro spontanea volontà”. Il piano trascura un fatto semplice: Israele non possiede la terra che ha occupato nel 1948 e i territori che occupò nel 1967. Quindi il principio di scambio di territori è un non-inizio. Da parte palestinese lo scambio di terra è contrario ai principi della Carta Nazionale Palestinese che invoca l’unità del territorio palestinese (così come d’altra parte aveva fatto anche la carta del Mandato) e quindi non può essere accettata da alcuna leadership nazionale legittima. Peggio ancora è che questa proposta darà legittimità e perpetuerà il defunto accordo di Oslo. Sebbene la divisione della Cisgiordania in zone A, B e C, fosse stata presupposta come misura temporanea in attesa dello stabilirsi dello Stato palestinese entro il 1999 sull’intera Cisgiordania e Gaza, Israele ha consolidato questa divisione del territorio in modo concreto, legale e procedurale. Perciò la larga area C rimarrà sotto Israele, mentre l’area B sarà sotto la reale sovranità di Israele e, in questa, Israele sarà libera di arrestare chiunque voglia, in ogni momento, lasciando compiti municipali e la pulizia delle strade all’Ap. Come Amira Hass1 ha scritto sul giornale israeliano «Haaretz», l’area B è diventata un ricettacolo di ladri e spacciatori e l’Ap non si azzarda a intervenire. L’area A sarà la gabbia nella quale i palestinesi della Cisgiordania e quelli espulsi da Israele mediante pulizia etnica saranno messi. Loro saranno in grado di alzare la bandiera di uno Staterello palestinese indipendente. Questa non-entità non avrà alcuna somiglianza con lo Stato della Palestina riconosciuto e immaginato dalla Lega delle nazioni nel 1920 e non sarà la Palestina definita dalla Storia e così riconosciuta dal popolo palestinese. Tutti i diritti nazionali palestinesi verrebbero aboliti o ridotti in questo Stato, incluso il diritto inalienabile al ritorno. Il “ritorno” sarebbe inteso come un ritorno allo Staterello palestinese non alle case originarie dei profughi. Dal momento che la gabbia sarebbe troppo stretta, i profughi della Palestina del ’48 sarebbero costretti a un esilio permanente. È quindi evidente che i palestinesi hanno bisogno di una nuova leadership eletta attraverso un processo democratico inclusivo di tutti i palestinesi, non solo quelli della Cisgiordania o della striscia di Gaza. I profughi nei campi di Siria, Libano e Giordania devono essere inclusi e anche quelli dello shatat (diaspora) più ampio. Essi sono la circoscrizione elettorale primaria. La nuova leadership dovrebbe essere ben preparata sulla storia e geografia palestinese e sui diritti dei palestinesi, e dovrebbe essere preparata a difenderli. Per citare il noto e rispettato scrittore Ghassan Kanafani: «se l’avvocato perde la causa, si cambi l’avvocato, non la causa».
7 ottobre 2011
*Salman Abu Sitta è il coordinatore generale del Congresso del Diritto al Ritorno.
1. «La divisione artificiale tra area A, B e C doveva essere cancellata dalle mappe e fatta cadere dalle discussioni nel 1999. Israele invece l’ha santificata e l’ha resa perenne», Amira Hass, 2011.
Alle Nazioni Unite il funerale della soluzione dei due Stati
di Ilan Pappe*
http://electronicintifada.net/content/un-funeral-two-state-solution/10370
La Palestina seppellirà la soluzione dei due Stati una volta e per tutte? Stiamo tutti per essere invitati al funerale della soluzione dei due Stati, se e quando l’Assemblea generale delle Nazioni Unite accetterà la Palestina come Stato membro. Il sostegno della gran maggioranza dei membri dell’Onu completerebbe un ciclo che ha avuto inizio nel 1967 e che ha accordato all’infelice soluzione dei due Stati l’appoggio di ciascun attore più o meno potente sulla scena internazionale e regionale. Anche all’interno di Israele, tale sostegno alla fine ha impantanato le politiche sioniste di destra, di sinistra e di centro. Eppure, nonostante il sostegno passato e futuro, tutti dentro e fuori la Palestina sembrano riconoscere che l’occupazione continuerà e che anche nel migliore degli scenari possibili ci sarà un Israele più grande e razzista affiancato a un bantustan frammentato e inutile. La sciarada si concluderà a settembre o ad ottobre − quando l’Autorità palestinese ha in programma di presentare la propria richiesta di piena adesione all’Onu − in due possibili modi. Potrebbe essere in modo doloroso e violento, se Israele continuerà a godere dell’immunità internazionale e gli si consentirà di portare a compimento con pura forza bruta la propria idea della Palestina post-Oslo; oppure potrebbe concludersi in un modo rivoluzionario e molto più pacifico con la graduale sostituzione delle vecchie menzogne con nuove e solide verità sulla pace e la riconciliazione per la Palestina. O forse il primo scenario costituisce una spiacevole condizione preliminare alla realizzazione del secondo. Lo dirà solo il tempo.
Un dizionario alternativo del Sionismo
Nell’antichità i morti venivano sepolti insieme ai propri amati manufatti e con i propri effetti personali. Questo imminente funerale probabilmente seguirà un analogo rituale. L’oggetto più importante che finirà sotto terra è il dizionario delle illusioni e degli inganni e alcune delle sue voci più note, come: “processo di pace”, “unica democrazia del Medio Oriente”, “nazione che ama la pace”, “parità e reciprocità” nonché “soluzione umana al problema dei profughi”. Il dizionario alternativo è da molti anni in fase di preparazione, da parte di chi descrive: il sionismo come forma di colonialismo, Israele come uno Stato di apartheid e la nakba come pulizia etnica. Sarà molto più facile cominciare a usarlo dopo settembre. Anche le mappe della defunta soluzione giaceranno accanto alla salma. La cartografia che ha ridotto la Palestina a un decimo del suo territorio storico − e che era stata presentata come una mappa per la pace − sparirà per sempre, si spera.
* Ilan Pappe è uno dei rappresentanti della cosiddetta “Nuova storiografia israeliana”, che ha come fine scientifico ed etico quello di sottoporre a un accurato riesame la documentazione orale che è prevalsa per lunghi decenni nel tracciare le linee ricostruttive storiche relative alla nascita dello Stato d’Israele e del sionismo in Israele. Attualmente è professore cattedratico nel Dipartimento di Storia dell’Università di Exeter (Regno Unito) e co-direttore del suo Centro per gli Studi Etno-Politici. Ha fondato e guidato l’Istituto per la Pace a Givat Haviva (Israele) fra il 1992 e il 2000, e ha ricoperto la cattedra dell’Istituto Emil Touma per gli Studi Palestinesi di Haifa (2000-2008). Nel 1996 si è presentato come candidato alla Knesset sulla lista del Hadash, emanazione del Partito comunista israeliano. In questi ultimi anni, Ilan Pappe è stato soggetto e oggetto di numerose polemiche, particolarmente dopo il dibattito sul Massacro di Tantura e il suo appello per il boicottaggio delle università israeliane.
Non c’è bisogno di elaborare una mappa alternativa. A partire dal 1967 la geografia del conflitto non è mai stata modificata nella realtà, mentre ha ininterrottamente continuato a trasformarsi nel discorso di politici, giornalisti e accademici sionisti liberal, che ancora oggi incontrano un diffuso appoggio internazionale. La Palestina è sempre stata la terra compresa tra il fiume e il mare. E lo è ancora. Le sue alterne fortune non sono caratterizzate dalla geografia ma dalla demografia. Il movimento dei coloni, che vi è giunto alla fine del XIX secolo, ora rappresenta la metà della popolazione e controlla l’altra metà attraverso una matrice fatta di ideologie razziste e politiche di apartheid. La pace non è un cambiamento demografico né una riscrittura delle mappe: è piuttosto l’eliminazione di tali ideologie e tali politiche. Chissà, forse oggi questo potrebbe essere più facile che mai. Smascherare il movimento di protesta israeliano Il funerale rivelerà la fallacia dell’attuale massiccio movimento di protesta israeliano, mettendone allo stesso tempo in luce il potenziale positivo. Per sette settimane ebrei israeliani provenienti prevalentemente dalla classe media hanno protestato in massa contro le politiche sociali ed economiche del proprio Governo. Per mantenere il movimento di protesta più vasto possibile, i suoi leader e i suoi coordinatori non osano fare menzione dell’occupazione, della colonizzazione e dell’apartheid. Le origini del male di tutto, sostengono, sono le brutali politiche capitalistiche del Governo. Fino a un certo punto hanno ragione. Queste politiche infatti hanno impedito alla razza padrona di Israele il godimento pieno ed equamente distribuito dei frutti della colonizzazione e dello spossessamento della Palestina. Ma una più equa ripartizione del bottino non assicurerà una vita normale né agli Ebrei né ai Palestinesi: lo farà solo la fine della volontà di saccheggiare e depredare. Nondimeno hanno anche mostrato scetticismo e diffidenza verso quello che i loro mass-media e i loro politici gli dicono sulla situazione socio-economica; questo potrebbe aprire una strada per una migliore comprensione delle bugie con cui sono stati nutriti riguardo al “conflitto” e alla “sicurezza nazionale” per così tanti anni. Il funerale dovrebbe stimolarci tutti a rispettare la stessa distribuzione del lavoro di prima. I Palestinesi hanno urgente bisogno di risolvere il problema della rappresentanza. Le forze ebraiche progressiste nel mondo devono essere maggiormente coinvolte nelle campagne di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (Bds) e in altre campagne di solidarietà.
L’intifada ai Proms*
La recente interruzione dell’esibizione della Israel Philarmonic Orchestra ai prestigiosi concerti “Proms” di Londra, hanno scioccato i buoni Israeliani più di qualunque altro genocidio nella loro storia. Più di ogni altra cosa, tuttavia, come riportato da autorevoli giornalisti israeliani che si trovavano sul posto, ciò che più li ha sbalorditi è stata la presenza di tanti ebrei tra i contestatori. Quegli stessi giornalisti hanno continuamente dipinto nel passato gli attivisti della Palestine Solidarity Campaign e del movimento Bds come gruppi terroristici ed estremisti della peggiore specie. Credevano ai loro stessi rapporti. A suo merito dunque la mini-intifada alla Royal Albert Hall li ha quantomeno messi in confusione.
* I concerti estivi alla Royal Albert Hall di Londra, n.d.t.
Mettere in atto politicamente lo Stato unitario Nella stessa Palestina è giunto il momento di spostare il discorso sullo Stato unitario sul piano dell’azione politica e magari adottare il nuovo dizionario. L’espropriazione è ovunque e quindi la riappropriazione e la riconciliazione devono avvenire ovunque. Se le relazioni tra Ebrei e Palestinesi devono essere riformulate su basi giuste e democratiche, non si può accettare né la vecchia mappa sepolta né la sua logica spartitoria. Ciò significa anche che la distinzione sacra che è stata fatta tra insediamenti vicini ad Haifa e insediamenti vicini a Nablus dovrebbe essere anch’essa sepolta. La distinzione dovrebbe essere fatta piuttosto tra quegli Ebrei che sono disposti a discutere la ridefinizione delle relazioni, il cambiamento di regime e lo status di uguaglianza, e quelli che non lo sono, a prescindere da dove vivano ora. A questo riguardo avvengono fenomeni sorprendenti se si studia bene il tessuto umano e politico della Palestina storica nel 2011, governata com’è dal regime israeliano: la volontà di dialogo è talvolta più evidente al di là dei confini del 1967 che al loro interno. Il dialogo dall’interno per un cambiamento di regime, la richiesta di rappresentanza e il movimento Bds, sono parti integranti del medesimo sforzo per portare giustizia e pace in Palestina. Ciò che seppelliremo a settembre, si spera, era uno dei maggiori ostacoli sulla strada della realizzazione di tale prospettiva.
12 settembre 2011
Traduzione a cura di Renato Tretola
La creazione di un bantustan sovrano (establishing a sovereign bantustan)
di Jalal Abukhater*
http://www.ospiteingrato.org/Sezioni/paesi_allegorici/Palestina_Abukhater.html
Riflessioni sulla richiesta unilaterale di riconoscimento di uno Stato palestinese avanzata dall’Anp all’Assemblea delle Nazioni Unite in programma il 20 settembre 2011.
L’opinione di un giovane blogger palestinese.
La nostra non è una battaglia per il riconoscimento di uno Stato simbolico; è una lotta per ottenere i diritti fondamentali che ci sono negati. Da oltre sessant’anni infatti stiamo lottando per il nostro diritto al Ritorno, per il diritto di vivere nella terra dei nostri padri, il diritto di essere trattati come cittadini uguali agli altri, il diritto di vivere una vita dignitosa. Ma i nostri rappresentanti ora stanno rischiando tutto per ottenere il riconoscimento di uno Stato sovrano su una piccolissima porzione della nostra ben più grande terra. Si tratta di una mossa disperata che ci condurrà a ciò che letteralmente è espresso con il termine bantustan. Come scrive Virginia Tilley, non è un’esagerazione sostenere che questo progetto, ben noto a molti, arrechi al Movimento Nazionale Palestinese il danno più evidente di tutta la sua storia, ricacciando le aspirazioni dei palestinesi in un vicolo cieco dal quale sarà impossibile tornare indietro. L’ironia della sorte è che, attraverso questa manovra, l’Autorità Nazionale Palestinese sta facendo sua esattamente la stessa formula fatale contro la quale l’African National Congress ha combattuto così aspramente per decenni, perché la leadership dell’Anc vedeva chiaramente che si trattava di un disastro. Questa formula può essere facilmente riassunta in una parola: Bantustan.
Se non impariamo dalla storia recente, che cosa spereremo di ottenere? Ci stanno trascinando in una trappola dove i diritti di milioni di profughi cacciati dalle loro terre sono a rischio. Ma chi sta veramente ascoltando le nostre legittime preoccupazioni? Pochi mesi fa ho posto la questione a diversi gruppi della sinistra israeliana contrari all’occupazione e chiesto loro di appoggiare la proposta di un unico Stato democratico, come unica soluzione che ponga fine alla lotta e garantisca giustizia e uguaglianza per entrambe le parti. Se avessi imparato qualcosa dalle discussioni delle ultime settimane, userei lo stesso tono, se non più duro, per affrontare questo argomento: smettiamola di parlare in modo generico di speranza e muoviamoci nella direzione di una reale comprensione del significato delle azioni e delle conseguenze della creazione di uno Stato palestinese sovrano. Se vedessimo la Cisgiordania e la striscia di Gaza immediatamente liberate non appena le Nazioni Unite ci riconoscessero come uno Stato, io non mi preoccuperei molto perché poi la leadership palestinese sarebbe a mala pena capace di occuparsi della più grande questione riguardante i profughi. Ma la realtà dice ancora altro. Ali Abunimah, in un editoriale per la versione in inglese di «Al-Jazeera», faceva notare che: il Libano è membro delle Nazioni Unite dal 1945, ma questa sua posizione non ha impedito a Israele di occupare la zona meridionale del suo territorio dal 1978 al 2000. L’occupazione israeliana del Libano non è finita per merito di una qualche pressione internazionale, ma soltanto perché la Resistenza libanese ha cacciato Israele e le sue milizie collaborazioniste. Allo stesso modo, dal 1967 Israele continua a occupare le alture del Golan, che appartengono alla Siria (anch’essa membro delle Nazioni Unite dal 1945). Non c’è praticamente nessuna resistenza armata sulle alture del Golan, né ci sono state pressioni internazionali perché Israele sia estromesso o i profughi siriani possano ritornare nelle loro case.
Per quale ragione la situazione nel presunto Stato palestinese dovrebbe essere diversa? Mentre l’occupazione israeliana della Cisgiordania continuerà ad avanzare anche dopo il 20 settembre, i nostri rappresentanti continuano a insistere che ora è tempo di dichiarare la costituzione di uno Stato, ignorando le conseguenze di questa azione. La delegazione palestinese presso le Nazioni Unite è stata avvertita che la loro iniziativa metterà a rischio i diritti dei palestinesi della Diaspora del 1948 e che «porrà fine allo status giuridico di osservatore presso l’assemblea dell’Onu, attualmente detenuto dall’Olp», secondo quanto sostiene l’esperto di diritto internazionale dell’Università di Oxford Guy Goodwin-Gill. Nel suo documento di sette pagine Goodwin-Gill, membro del team che nel 2004 ottenne dalla Corte Internazionale di Giustizia la sentenza di condanna − sebbene non vincolante − del Muro israeliano, fa luce sui rischi legali impliciti nel riconoscimento di uno Stato palestinese: «milioni di rifugiati potrebbero perdere la loro rappresentanza presso le Nazioni Unite». Il legale continua affermando che: «molti palestinesi rivendicano il diritto di partecipare alle scelte dei propri rappresentanti. Personalmente credo che le iniziative in corso per assicurare il riconoscimento dello Stato non riflettono pienamente il ruolo del popolo palestinese come principale parte in causa nella soluzione dei problemi del Medio Oriente». «Occorre che l’Autorità Nazionale Palestinese cerchi una soluzione condivisa che garantisca i diritti di tutti i palestinesi che intende rappresentare», conclude Goodwin-Gill. Ogni volta che qualcuno parla della richiesta del riconoscimento dello Stato palestinese in calendario per settembre all’Onu, senti pronunciare la parola “veto”. Tutti sembrano certi che gli Stati Uniti useranno il loro potere di veto al Consiglio di Sicurezza per fermare qualsiasi tentativo unilaterale di cercare una dichiarazione di uno Stato palestinese entro i confini del 1967. Qualcun altro dice che la delegazione alle Nazioni Unite cercherà altre vie per evitare il voto del Consiglio di sicurezza; altri ancora dicono che la dichiarazione all’Onu sarà la fine di un percorso. Gli interessi del popolo palestinese sono a rischio di pregiudizio e frammentazione, a meno che non si compiano reali passi avanti per assicurare la loro rappresentanza attraverso Olp, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, ad oggi l’unico rappresentante effettivo di tutti i palestinesi. Il mantenimento del ruolo di osservatore dell’Olp si renderà necessario finché al suo posto non ci sarà uno Stato competente e pienamente capace di assumersi queste responsabilità nei confronti della stragrande maggioranza del popolo palestinese. Molti attivisti non palestinesi, associazioni per i diritti umani e avvocati internazionali stanno esprimendo le loro preoccupazioni, ma non tutti sono capaci di contestare la decisione della leadership palestinese perché ritengono che questo sia un compito esclusivo dei palestinesi. Tuttavia, purtroppo, non molti palestinesi sono perfettamente consapevoli dei rischi e gli oltre 6,5 milioni di loro che fanno parte della Diaspora dovranno fare i conti con le conseguenze di un’iniziativa intrapresa da un leader per il quale loro non hanno votato o con cui magari dissentono e che, malgrado ciò, parla al posto loro. I rappresentanti di Ramallah invece sono perfettamente consapevoli delle conseguenze, ma la loro iniziativa è il risultato della collera davanti al fallimento per il processo di pace a cui loro avevano lavorato per decenni. Questa collera li sta spingendo verso un’iniziativa irrazionale, che tuttavia continuano in qualche modo a sbandierare come un successo del loro operato. Questo piano mira a rompere i legami tra palestinesi di tutto il mondo; la leadership palestinese dovrebbe saperlo molto bene e cercare piuttosto un’iniziativa vantaggiosa per tutti. Dal canto loro, se avremo successo, otterremo il nostro Stato. Secondo la mia opinione, se falliremo, eviteremo le conseguenze di aver avuto successo e potremo cercare un’altra soluzione. Questo è irrazionale, ne sono consapevole. Ma la maggior parte dei palestinesi è pronta ad accogliere positivamente il risultato dell’iniziativa di settembre. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, dal canto suo invece, si oppone alla richiesta perché beneficia dell’appoggio dei coloni degli insediamenti illegali della Cisgiordania. Netanyahu vuole mantenere il controllo delle aree strategiche e delle risorse idriche. Mira a conservare il nostro status quo, costituito da molte prigioni a cielo aperto separate le une dalle altre e sparse per la Cisgiordania. Ma io non vedo la ragione per cui il Presidente Obama si dovrebbe o potrebbe opporre. Personalmente, io dubito che gli Stati Uniti useranno il loro potere di veto. Con questa soluzione, gli Usa potrebbero porre fine a sessantaquattro anni di lotte ininterrotte e favorire il piano del Sionismo. La soluzione dei due Stati causerà la frammentazione dei palestinesi, una maggiore separazione tra gli abitanti della Cisgiordania e quelli della striscia di Gaza, tra coloro che vivono in Israele e quelli della Diaspora. Sottrarrà cioè con la forza i diritti di milioni di persone.
Traduzione Sara Montagnani
Comunicato del Movimento Giovanile Palestinese
Noi, del Movimento Giovanile Palestinese (Pym), ci opponiamo alla proposta di riconoscimento dello Stato palestinese con i confini del 1967, che verrà presentata alle Nazioni Unite questo settembre da parte della leadership palestinese. Noi crediamo e affermiamo che la dichiarazione di uno “Stato di Palestina” sia solo il completamento del processo di normalizzazione che ha avuto inizio con gli erronei accordi di Oslo. Questa iniziativa non riconosce né affronta la questione che il nostro popolo continua a vivere in un regime coloniale basato sulla pulizia etnica della nostra terra e sulla subordinazione e lo sfruttamento del nostro popolo. Questa dichiarazione serve come meccanismo per salvaguardare il quadro difettoso del processo di pace e per depoliticizzare la lotta per la Palestina attraverso la rimozione della lotta dal suo contesto storico coloniale. I tentativi di imporre una pace falsa con la normalizzazione del regime coloniale ci hanno solo portato a rinunciare a quantità sempre più grandi della nostra terra, ai diritti del nostro popolo e alle nostre aspirazioni, delegittimando ed emarginando la lotta del nostro popolo, rendendo sempre più intensa la frammentazione e la divisione tra la nostra gente. Questa dichiarazione compromette i diritti e le aspirazioni di oltre due terzi dei palestinesi che vivono come rifugiati in esilio in altri Paesi; palestinesi che, dalla Nakba (la catastrofe) del 1948 aspettano di tornare nelle loro case dalle quali sono stati sfollati. In questo modo si compromette anche la posizione dei palestinesi che risiedono nei territori occupati nel 1948, che continuano a resistere dall’interno quotidianamente contro la pulizia etnica e le pratiche razziste del regime coloniale. Inoltre, questa dichiarazione incentiva e spinge i palestinesi e i partner arabi ad agire come i guardiani dell’occupazione e della colonizzazione nella regione, all’interno di un quadro neo-coloniale. Le fondamenta di questo processo servono solo ad assicurare la continuazione dei negoziati, la normalizzazione economica e sociale e la cooperazione per la sicurezza. La dichiarazione dello Stato cristallizzerà confini falsificati su un frammento della storica Palestina e continuerà a non affrontare le questioni fondamentali: Gerusalemme, le colonie, i rifugiati, i prigionieri politici, l’occupazione, le frontiere e il controllo delle risorse. Crediamo che una tale dichiarazione non possa né garantire né promuovere la giustizia e la libertà dei palestinesi, il che significa di per sé che non ci sarà nessuna pace duratura nella regione. Inoltre, l’iniziativa della dichiarazione dello Stato palestinese è presentata alle Nazioni Unite da una leadership palestinese che è illegittima e che non è stata eletta con metodi democratici da tutto il suo popolo e che, pertanto, non rappresenta la popolazione palestinese nella sua totalità. Questa proposta è un fabbricazione politica progettata dalla leadership palestinese per nascondersi dietro l’incapacità di rappresentare i bisogni e i desideri della propria popolazione. Affermando di soddisfare la volontà palestinese di autodeterminazione questa leadership sta abusando e sfruttando la resistenza e i sacrifici del popolo palestinese, in particolare dei nostri fratelli e delle nostre sorelle di Gaza, e addirittura dirottando il lavoro dei movimenti di solidarietà internazionale, come il Bds (boicottaggio, disinvestimento e sanzioni) e le iniziative della flottiglia. Questa proposta serve solo a sperperare tutti gli sforzi fatti per isolare il regime coloniale e renderlo responsabile. Indipendentemente dal fatto che la proposta per il riconoscimento statale venga accettata o meno, chiediamo ai palestinesi all’interno del nostro Paese sotto occupazione e ai palestinesi della diaspora di continuare a essere devoti e impegnati alla nostra lotta e a difenderla, traendo ispirazione dai loro diritti e dalle loro responsabilità.
Facciamo appello ai popoli liberi del mondo e agli alleati del popolo palestinese di mostrare una reale solidarietà con i palestinesi in una lotta anti-coloniale, non schierandosi a favore o contro la dichiarazione di uno Stato palestinese, ma piuttosto continuando a considerare Israele responsabile e pertanto boicottandola dal punto di vista economico, accademico e culturale.
Fino a quando ritorneremo e saremo liberi.
20 settembre 2011
Consiglio Centrale Internazionale Movimento dei Giovani Palestinese