Mostra: 10 - 10 di 122 RISULTATI

Notiziario CDP 267

Settembre-Ottobre 2021

Prendere la parola

Libertà, scuola, educazione, pedagogia

Il progetto Prendere la parola, nell’arco di circa sei mesi, ha convogliato gli interrogativi e le inquietudini di un gruppo di amici, in merito a un argomento che, a dirla tutta, li coinvolge da un tempo molto più lungo (un certo numero di anni, a seconda dei casi). L’urgenza di affrontare in modo più approfondito, e soprattutto da punti di vista diversi, una data tematica si era acuita nell’ultimo lasso di tempo per via delle condizioni sociali determinate dalla pandemia e delle conseguenti misure intraprese nei confronti delle comunità di cui facciamo tutti parte. Dunque, per quanto il problema in questione dovrebbe prescindere dalla contingenza in cui ci troviamo, ad oggi diventa il perno di un dibattito fondamentale ai fini della convivenza civile e pacifica.

Ci siamo stretti attorno al Centro di Documentazione di Pistoia, forse nella nostra città il luogo che più di tutti poteva offrire un ambiente del tutto immune da istanze conservatrici come da quelle votate a un progressismo conformista o accademico, e questo per la sua storica (cinquantennale) vocazione a una ricerca libera, che ha sempre valorizzato le voci minoritarie, e naturalmente per il patrimonio pubblicistico di cui dispone, che include una documentazione vasta e ancora in buona parte inesplorata del dibattito sull’educazione, in particolare in Italia, appunto negli ultimi cinquant’anni.

Ciò che ci ha spinti a intervenire è stata dunque la disponibilità di questa solida base d’appoggio e la condivisione di un’inquietudine. D’altra parte non avevamo le idee chiare; sapendo del resto che avere le idee chiare e concordi non è un fatto che possa riguardare l’educazione e la pedagogia, ci siamo focalizzati sull’unico obiettivo che ci sembrava plausibile e realizzabile, soprattutto nelle condizioni in cui abbiamo operato: avvicinare, incontrare e far incontrare persone, ridurre distanze nel regime della relazione a distanza, intavolare discussioni, tracciare una rete di collegamento fra parole e pensieri, sperimentare strumenti e strategie di dialogo attraverso cui superare i limiti imposti dal distanziamento fisico e sociale, tutelando le modalità proprie della conversazione e dello scambio autentico, e rifiutando piuttosto il mito dell’esperto, il paradigma della conferenza, della lectio, delle tesi contrapposte, della dimostrazione.

Non siamo partiti da nessun presupposto ideo­logico, e abbiamo posto alla base del nostro percorso un’intenzione prevalentemente volta alla pratica, all’utilità e alla funzionalità della riflessione che volevamo sviluppare, ma rispetto alla quale non sussistevano chiare possibilità di previsione.

Del resto, sì, condividevamo alcuni presupposti di approccio, e forse di metodo: non esistono (e dunque non si possono ricercare) formule illuminanti, ma siamo sempre in cerca di una illuminazione; le istituzioni che regolano la comunità e la convivenza, anche quando siano disposte all’espletamento di un servizio educativo, possono costituire il maggiore ostacolo alla soddisfazione del diritto delle persone all’educazione, all’istruzione, allo sviluppo in genere; l’educazione della comunità e dei suoi membri è strettamente connessa alle modalità in cui essi esprimono i propri bisogni e la propria libertà in termini operativi, e all’opportunità pratica che ne hanno; esiste un vincolo imprescindibile tra la possibilità di concepire un percorso educativo e la possibilità di immaginare un mondo diverso (migliore, detto in termini semplici e un po’ imprudenti) rispetto a quello presente, così come la possibilità di dare spazio rappresentativo a questa immaginazione.

È impossibile qui tirare le conclusioni o anche definire il risultato degli incontri e dei dialoghi che abbiamo organizzato: quello che abbiamo raccolto in queste pagine è una piccola parte del frutto di questo lavoro e della breve ricerca che abbiamo condotto. Non una ricerca volta a pillole di saggezza, o a proposte di soluzione, rispetto a quello che definiamo “il problema educativo”, ma ad aprire nuove opportunità di visione, a proporre punti di vista plausibili.

L’invito è quindi quello di leggere le pagine che seguono senza alcun tipo di pregiudizio o di precisa aspettativa, intravedendo la pluralità dei possibili fili conduttori, di cui non si sta qui a fare un resoconto, se non menzionando il tentativo, che ci siamo concessi, di parlare di educazione e pedagogia stabilendo una stretta relazione con le modalità, gli spazi, gli strumenti, i linguaggi attraverso cui oggi possiamo esprimere la nostra libertà come uomini e come donne, e dunque ponendo un forte interrogativo su una rete di istituzioni e sistemi di valori e dunque di strumenti della convivenza civile comunemente accettati, dai quali emana il potere della sovranità a cui ci si è riconosciuti, senza che sia ormai evidente quanto queste istituzioni e valori siano realmente funzionali alla libertà, quanto questi strumenti siano realmente a disposizione delle persone e delle comunità.

Nelle pagine che seguono riportiamo le trascrizioni degli incontri di Prendere la parola, che si sono svolti a distanza e in presenza tra febbraio e settembre 2021; gli incontri sono stati sempre trasmessi in streaming sulla radio web Fango Radio e sul sito del Centro di Documentazione di Pistoia (www.centrodocpistoia.it), dove sono tuttora reperibili in formato podcast. Nella trascrizione dei testi si è voluto il più possibile rispettare sia la forma sia il contenuto degli incontri, fatti salvi gli inevitabili aggiustamenti e interventi volti a rendere più fruibile la lettura. Per apprezzare a pieno le conversazioni invitiamo chi legge a prendersi il tempo di ascoltare direttamente le voci dei protagonisti degli incontri.

Prendere la parola è un’iniziativa del Centro di Documentazione di Pistoia, con la collaborazione di CEDEI Italia, editrice elèuthera, Edizioni dell’Asino, Fango Radio, con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia — Per la cultura #iorestoattivo.

Il progetto grafico di Prendere la parola ha visto la partecipazione delle illustrazioni di Codice 667 e Jackid_13.

Questo numero del notiziario è stato curato da Linda Babbini, Luca Cioni, Giulio Civilini, Lorenzo Maffucci, Fabio Mati, Ivan Pagliaro, Roxi E. Montero Prens, Gabriella Traviglia.

“Una fiamma nel buio. Conversazioni” di Ivan Illich e David Cayley, a cura di Giacomo Borella, elèuthera editrice, 2020

Incontro con Giacomo Borella e Luigi Monti, 20 febbraio 2021

Giacomo Borella, architetto, lavora all’interno dello studio Albori, che ha fondato con altri amici una trentina di anni fa, e si occupa di varie altre cose. È autore del libro “Per un’architettura terrestre” (Lettera Ventidue 2016), ha tradotto dall’inglese e curato la raccolta di scritti di Colin Ward “Architettura del dissenso” (Elèuthera 2016) e le nuove edizioni di “Il mutuo appoggio” di Pëtr Kropotkin (elèuthera 2020) e delle conversazioni con Ivan Illich raccolte da David Cayley, “Una fiamma nel buio” (elèuthera 2020). Ha collaborato con diverse riviste e testate tra cui il Corriere della Sera, Radio Popolare, Linea d’ombra, Lo straniero, Gli asini.

Luigi Monti, attraverso l’associazione Giunchiglia-11, insegna italiano nella scuola di italiano per stranieri “Frisoun” di Nonantola (Modena). È redattore della rivista Gli asini. Per le Edizioni dell’asino, ha curato di recente l’antologia di scritti pedagogici di Fernand Deligny “I vagabondi efficaci”.

Giulio Civilini (GC): Per cominciare possiamo spendere alcune parole sul Cidoc, il Centro interculturale di documentazione di Cuernavaca, in Messico?

Giacomo Borella (GB): Il Cidoc nasce nel 1966 e dura fino al 1976: prima del Cidoc nasce il suo antenato, il Cif. Non è facile riassumere cosa fosse il Cif e cosa il ben più noto Cidoc. Prima di tutto, paradossalmente, visto che Illich era famoso per la sua posizione di “descolarizzatore”, dobbiamo ammettere che era una scuola: questo è emblematico dell’atteggiamento di Illich, che di volta in volta, per tutta la vita, incarnerà paradossi diversi. Il Cif nasceva tecnicamente come una scuola di spagnolo in cui i futuri volontari che si preparavano ad andare a operare in America latina, tendenzialmente di provenienza nordamericana, passavano una stagione a studiare la lingua. In realtà, come spiega Illich nelle conversazioni che stiamo presentando, si trattava di un espediente che consentiva di intercettare alcune figure che Illich e i suoi sodali ritenevano mosse da una buona intenzione ma destinate a produrre effetti controproduttivi una volta che avessero iniziato la loro attività. Era, insomma, un modo per proporgli di rimettere radicalmente in discussione le loro basi di partenza e i loro obiettivi. Il fatto che queste persone dovessero vivere per anni in America latina prescriveva che imparassero bene la lingua locale: questa era una condizione sine qua non per non arrivare come dei marziani nella loro destinazione; ma contemporaneamente il cuore dell’attività che si svolgeva al Cidoc, e di cui i soldi che venivano raccolti come forma di retta per l’iscrizione alla scuola di lingue, erano poi il finanziamento per questo fine più profondo, era una messa in discussione radicale, una vasta rassegna di tutti i princìpi fondamentali e i luoghi comuni che stavano a monte dell’   idea di sviluppo, di progresso e del suo contrario, cioè di sottosviluppo. Questo è uno degli obiettivi su cui Illich lavora costantemente in quel quindicennio del Cif/Cidoc: mettere in discussione il fatto che la strada imboccata dai paesi che lui qua e là chiamava “sovrasviluppati” o “sovrattrezzati” fosse l’unica possibile da percorrere. In quel periodo, fino a metà degli anni Settanta, Illich credeva — e lo scriverà in modo molto chiaro — che i paesi cosiddetti “sottosviluppati” fossero in una posizione di vantaggio, in quanto ancora in grado di decidere la loro sorte, la loro prospettiva di vita, senza avere già iniziato quel processo per molti versi fortemente distruttivo che era quello dello sviluppo, ovvero della società dei consumi.

GC: Questa nota sul Cidoc ci dà l’appoggio per accedere a quella visione del mondo che stava dietro a questo modo di agire e di riflettere. Un problema che si pone Illich è: cosa fanno le cose alla società? Cosa fa l’educazione alla società? Secondo l’assunto comune di “educazione” esiste una “scarsità”, un presunto deficit di competenza, un presunto stato di minorità a livello di capacità di apprendimento, e si presume anche che ci sia una qualche entità che monopolizza la possibilità di svolgere un’attività educativa. Si è ormai assuefatti a concepire il sapere come un valore piuttosto che come un bene, come un qualcosa di necessario piuttosto che come qualcosa di desiderato. Quindi incombe in questa prospettiva un’idea economica del sapere. Cosa fa la scuola? Capitalizza il sapere per educare?

Luigi Monti (LM): Nei libri, negli scritti e negli interventi pubblici di Illich non si trovano indicazioni su come si possa fare scuola in un altro modo, su come si possa fare educazione in un altro modo. Questo è probabilmente legato al fatto che lui si è dedicato molto più intensamente all’anatema piuttosto che al dogma, per rimanere nel linguaggio cattolico che lui frequentava molto assiduamente. Illich sentiva l’urgenza di demistificare le frasi di certezza su cui erano (e sono tuttora) costruite le istituzioni che reggono l’impalcatura delle democrazie occidentali. Non gli interessava tanto la parte costruttiva. Il messaggio forte che ha sempre cercato di dare è che sono le persone, le comunità, i gruppi che in un contesto dato devono porsi la questione di come fare scuola, di come fare educazione. Lui non voleva insegnare nulla in questo senso, ma sgombrare il campo e liberare energie creative e psicologiche per inventarsi modi di apprendere, prima di tutto per chi avesse la vocazione di fare educazione. Sarebbe interessante però approfondire alcuni aspetti della sua biografia, perché lui, come diceva Giacomo, educazione l’ha fatta per tutta la vita.

(Al Centro di documentazione di Pistoia potreste farlo, perché so che avete diversi bollettini che uscirono al Cidoc negli anni Sessanta: sarebbe interessante perché, a partire dalle scuole di lingua che mise in piedi quando era parroco nel quartiere portoricano di New York, alla didattica — se vogliamo chiamarla così — che costruì al Cidoc, fino ad arrivare ai seminari e ai convivi che organizzava, prima appoggiandosi a strutture universitarie, poi in totale libertà, se si andasse a curiosare, a perlustrare, si troverebbero indicazioni interessanti su come Illich faceva scuola.)

Venendo alla domanda che mi hai fatto, la questione sarebbe molto lunga. Io non sono uno studioso, quindi non sono in grado di sistematizzare il pensiero di Illich su quello che mi hai chiesto. Mi verrebbe da partire proprio dagli anni di Porto Rico, in cui era vice-rettore dell’Università cattolica e anche membro del Consiglio superiore dell’istruzione: sostanzialmente in quel frangente gli chiesero di pianificare, di programmare il sistema educativo portoricano nell’ottica di una scolarizzazione universale obbligatoria in un luogo, Porto Rico, che era molto più arretrato rispetto al Nordamerica. Illich si è reso conto presto, cominciando a studiare la questione educativa, che quello che la scuola dichiarava di voler fare, cioè da una parte istruire e dall’altra creare mobilità sociale e dare pari opportunità a tutti, non era in realtà in grado di farlo; né comunque era secondo lui un obiettivo auspicabile. Tant’è che dopo tre anni se ne va da Porto Rico e si mette a studiare, prima di tutto, i sistemi educativi occidentali. Quello che si rende conto stia facendo la scuola è molto diverso dalla partecipazione attiva e creativa e dalla costruzione del sapere che si erano immaginati i pedagogisti fino ad allora, da Rousseau a Pestalozzi. Da lì comincia la sua critica radicale alla scuola, che poi farà da modello alla critica delle altre istituzioni, dalla sanità pubblica al welfare ai trasporti, per arrivare in una seconda fase in cui va anche oltre alla critica del sistema educativo scolastico, quando si rende conto, negli anni Ottanta, che il modello della scuola è uscito dalle aule scolastiche. Lui parla di “aula universale”, cioè dell’idea che l’uomo nasca inadatto alla vita e che abbia bisogno di professionisti che masticano il sapere e che glielo trasmettano per una certa quantità di anni attraverso un meccanismo di premi e punizioni, bocciature e promozioni. Si rende conto che quella cosa è andata molto oltre, e quindi inizia a porsi la questione di come e quando è nata l’idea che l’uomo nasca inadatto alla vita e che abbia bisogno di esperti che lo rendano “umano”.

GB: Da qui si può passare a uno dei tantissimi progetti non realizzati da Illich, di cui ha spesso parlato. A un certo punto ha avuto questa idea paradossale di scrivere una specie di storia della “scarsità”, avendo colto questa idea di postulare la scarsità come fattore originario dell’esistenza umana, qualcosa che andasse quindi colmata attraverso la produzione di una serie di manufatti tecnologici o di infrastrutture istituzionali. Questa storia della scarsità naturalmente non l’ha mai scritta, ma è disseminata un po’ in tutta la sua opera.

Già che stiamo parlando di opere e di bibliografia vorrei precisare due cose. Il libro di cui stiamo parlando, “Una fiamma nel buio”, è unico nella produzione illichiana. Tanto per cominciare non fa parte a tutti gli effetti della sua bibliografia: non è un testo scritto di suo pugno ma ricavato dalle conversazioni registrate per la radio canadese da Cayley tra il 1988 e il 1992, che Illich non volle mai nemmeno ascoltare né di cui volle correggere la sbobinatura. Però, sia perché da un certo punto in poi (molto presto) aveva deciso di non rilasciare praticamente interviste, e sia per le caratteristiche specifiche di questa conversazione, è un libro unico, ed è forse il libro ideale che possiamo raccomandare a chi non abbia mai letto Illich come primo gradino per avvicinarvisi. È anche l’unico libro in cui Illich accetta coraggiosamente, pur un po’ malvolentieri, un po’ forzato da Cayley, di guidare il lettore/ascoltatore lungo le fasi della sua vita e del suo pensiero. C’è un’altra lunga conversazione che farà con Cayley quasi dieci anni dopo (pubblicata in italiano con il titolo “I fiumi a nord del futuro”), in cui però parlerà molto più liberamente dei suoi pensieri contemporanei, delle sue riflessioni nell’ultima fase della vita. “Una fiamma nel buio” rimane un caso isolato in cui Illich stesso racconta a chi lo legge come sono maturate le fasi della sua riflessione.

L’altra cosa che volevo dire è che c’è un precedente nel rapporto tra il Centro di documentazione di Pistoia e Illich, ed è il libro “Distruggere la scuola”, pubblicato dal Centro di documentazione di Pistoia in un anno che bisogna ricostruire con un po’ di studi archeologici (il libro non riporta la data, ma nelle bibliografie più attente viene datato 1971). Il libro raccoglie sei saggi di Illich che erano usciti in quegli anni, alcuni già in italiano su “Testimonianze” e su “Idoc”, una rivista della chiesa conciliare, e alcuni su “Esprit” e su “Les Temps Modernes” in Francia. Questo libro è importante perché è uno dei primissimi testi di Illich pubblicati in italiano (c’erano stati prima due libri, uno di Jaca Book e uno de La Locusta che hanno anticipato alcune riflessioni dell’Illich più giovane), ed è immediatamente precedente alla stagione in cui Illich verrà pubblicato da Mondadori, a partire da “Descolarizzare la società” nell’anno immediatamente successivo (1972, in traduzione italiana nel 1973), e poi, lungo gli anni Settanta, con i pamphlet centrali del suo lavoro di quel periodo.

GC: Riflettendo sulla scuola e sull’educazione Luigi ha usato le parole “siamo andati molto oltre”, riferendosi al pensiero di Illich sull’effettiva “efficienza” della scuola istituzionale. Mi viene da chiederti una riflessione sul concetto di controproduttività e su come si applica alla scuola e ad altri aspetti della tecnologia umana: quegli “strumenti” che, avendo raggiunto una certa intensità ed essendo andati quindi “molto oltre”, si trasformano da mezzi in fini, quindi finiscono col riprodurre quella scarsità a cui si faceva riferimento prima.

GB: Penso che il concetto di controproduttività sia una delle cose più importanti che Illich ha lasciato, e anche tra le più necessarie per capire qualcosa dell’oggi. L’idea era emersa tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta: l’identificazione, come fattore strutturale del nostro tempo della modernità, dell’aspetto di passare la soglia dimensionale oltre la quale un’azione comincia a produrre effetti opposti a quelli che ci si era prefissati. Questa è una formula che Illich ha poi sviluppato caso per caso, in modo molto dettagliato, a proposito delle diverse istituzioni cruciali per la modernità: la scuola, la medicina, i trasporti, il welfare in generale e anche l’abitare. È un’idea che lo accompagnerà per tutto il resto della sua vita, che si declinerà di volta in volta anche lessicalmente in modi diversi; utilizzerà il termine di “nemesi” per il suo famoso libro “Nemesi medica”; poi, verso il decennio finale, si incarnerà nel detto latino «corruptio optimi pessima», che lui traduce un po’ liberamente come «non c’è niente di peggio della corruzione del meglio». Sono tutti concetti imparentati, che hanno a che fare con un’origine virtuosa che muove un’azione, che poi tende a organizzarsi dispiegando una quantità e intensità di mezzi, di capitali, di tecnologie, di istituzionalizzazioni, oltre quella famosa soglia dimensionale che segna il fatto che da quel punto in poi questa azione comincia a produrre esattamente il contrario di quello che si prefiggeva. Credo che oggi questa analisi non abbia bisogno di ulteriori spiegazioni: la vediamo incarnarsi continuamente, quotidianamente davanti ai nostri occhi e dentro alle nostre vite. Per Illich questa era in qualche modo la parabola dello sviluppo e del progresso, che ancora oggi è qualcosa che colloca automaticamente in minoranza quanti provino a metterla in discussione. Oggi viene visto come qualcosa di assolutamente eretico ritenere di poter fare delle critiche, per esempio, in termini di limitazione dello sviluppo, del progresso. Pensiamo al tema delle infrastrutture: è invocata l’insufficienza, la scarsità di infrastrutture, come un fattore strutturale del nostro tempo. Io penso di non aver mai sentito qualcuno — un tecnico, un amministratore, un politico, uno studioso — nel mezzo secolo della mia vita che in qualche momento dicesse che di infrastrutture ne abbiamo nella misura giusta. Questa è una cosa introvabile. Quindi emergono queste categorie che postulano una scarsità, e quindi la necessità di uno sviluppo e di un consumo continuo, infinito. Credo che non ci siano state tante figure capaci di individuare un punto così cruciale del nostro tempo come l’ha fatto Illich. Da qua anche l’estrema necessità e utilità che possiamo avere oggi nel rileggerlo.

GC: Prima abbiamo nominato “Deschooling Society”: giusto per dare una piccola bussola, in questo caso possiamo fare un riferimento a “Tools for Conviviality”.

GB: Su questo tema, sulla parte più tecnica, sul tema degli strumenti e della tecnologia, forse i due libri fondamentali sono “Tools for Conviviality” (“La convivialità”) ed “Energy and Equity”, un pamphlet meraviglioso che in “Una fiamma nel buio” Illich maltratta un po’ (una delle sue altre caratteristiche è di maltrattare non solo gli altri ma anche sé stesso nelle fasi precedenti): lo accusa di essere stato un libro ingenuo, ma è un lavoro meraviglioso, poi inglobato nel volume “Per una storia dei bisogni” e poi, più recentemente ripubblicato in Italia con il titolo, simpatico ma un po’ parziale, di “Elogio della bicicletta”.

GC: In questa prospettiva l’idea di una interpretazione della società in una dialettica storica di oppressori e oppressi sembra non più adatta per spiegare la realtà: forse non lo era già ai tempi di Illich, e forse già per lui era una forma antiquata di relazionarsi con i problemi sociali.

LM: Questa è una delle ragioni per cui Illich è stato sostanzialmente snobbato, se non proprio avversato, dalla sinistra in generale: dalla sinistra americana come da quella europea e italiana. Ha avuto un momento di riconoscimento negli anni del movimento, interrotto quando il movimento si è reso conto che lui parlava sostanzialmente di altre cose: prima di tutto svicolava da questo schema della divisione del mondo e della società in oppressi e oppressori, e da quando si è messo a parlare di strumenti e di istituzioni, fino ad arrivare a mettere in discussione proprio alcuni pilastri del pensiero socialista e democratico come appunto la scuola pubblica universale e la sanità pubblica, non è stato più capito, come lui stesso sapeva e si aspettava.

Provo a tradurre questa idea a partire dalla mia esperienza: io insegno in una scuola di italiano per stranieri, e a parte le mie ore di didattica dell’italiano mi rendo conto che sto passando le mie settimane, tutto il tempo libero, a tappare i buchi. Le famiglie straniere sono mediamente quelle che più vengono escluse dai sistemi di integrazione che abbiamo in questo momento (scuola, servizi sociali). Mi rendo conto, da educatore militante quale mi considero, che mi viene il riflesso condizionato di lavorare per l’integrazione di queste persone, quindi sbattermi perché un richiedente asilo che non ha un permesso di soggiorno faccia di tutto attraverso la sanatoria per ottenerlo; sbattermi perché un ragazzino che rischia di essere espulso, escluso semplicemente perché non ha una connessione funzionante o un computer, passi l’anno e venga promosso. Bisogna chiedersi da dove viene questo riflesso condizionato, e da dove viene l’idea che se si è integrati si viva meglio. Questa domanda ogni tanto me la pongo, grazie anche a Illich: nei momenti di delirio leggere Illich aiuta a riposizionare quello che fai e quello che sei. Non è scontato che superare a tutti i costi un anno scolastico ti renda una persona più ricca o più viva; non è scontato che passare quattro anni nel sistema di accoglienza italiano ti renda più capace di pensare a te stesso piuttosto che startene tre o quattro anni nella clandestinità ma vivendo. Illich aiuta molto a pulire l’immaginario di noi educatori militanti dagli schemi attraverso cui guardiamo le cose: schemi che molte volte, anche sul piano della relazione educativa, non ci consentono di fare bene il nostro mestiere, perché abbiamo forse più in mente l’integrazione, il percorso di scuola e di scolarizzazione, e meno presente la persona che abbiamo davanti. Ci dovremmo sempre chiedere come fare per far star meglio le persone con cui lavoriamo, e non inserirle a tutti i costi negli schemi ideologici, politici o religiosi attraverso cui guardiamo al mondo.

GB: Sul tema oppressi/oppressori preciserei che lo sforzo per indicare forme di oppressione contemporanea è sempre rimasto assolutamente al centro del lavoro di Illich. Più che dire che il suo pensiero mette in crisi la formula oppressi/oppressori direi che la interroga, la riformula, la estende, la allarga, illuminandone le zone che fanno saltare alcuni automatismi. Più che non occuparsi di questo binomio lo riposiziona continuamente. Cito per esempio una sua frase di quegli anni, che dice: «L’interpretazione esclusivamente industriale del socialismo fa sì che comunisti e capitalisti parlino lo stesso linguaggio, misurino in maniera analoga il grado di sviluppo raggiunto dalla società». Questo è un suo tipico modo di spiazzare le categorie abitualmente contrapposte, a partire dalla questione tecnologica e dello sviluppo. Però da qua non discende che non ci siano forme inaccettabili e radicali di oppressione che vanno combattute, tutt’altro.

LM: Certo. Da intellettuale militante, forse la domanda a cui ha sempre cercato di rispondere è: quali sono le cause della libertà e dell’oppressione sociale? A questa domanda ha dato risposte molto diverse da come il pensiero socialdemocratico, per esempio, si dava in quegli anni e tuttora si sta continuando a dare.

GB: Una cosa che ho dimenticato di dire prima tratteggiando molto sommariamente il tema della controproduttività e della «corruptio optimi pessima»: cruciale per Illich, e quindi anche molto dolente per lui in quanto cristiano e sacerdote (rimarrà sacerdote per tutta la vita, al di là dell’autosospensione della fine degli anni Sessanta), è l’analisi che l’ideologia dello sviluppo, che postula questa scarsità, ha per lui un’origine assolutamente cristiana. L’ideologia dello sviluppo è per Illich un filone a cui dedicherà tantissime energie in tutte le fasi del suo lavoro, ed è per lui una forma di pervertimento del cristianesimo, cioè l’idea del “bene” dell’“amore” cristiano, dell’agape, che si trasforma, come dice lui, in un «management totale globale», cioè qualcosa che diventa gestione, burocrazia. Questo è un punto che sta molto a cuore non solo a me ma anche a Luigi, è un altro dei temi enormi del nostro tempo, che in qualche modo la sinistra tradizionale trascura, spesso considerandolo funzione inevitabile del pubblico, ed è un campo lasciato un po’ appannaggio delle destre, di rivendicazioni individualiste, di privilegio di classe eccetera. In Illich c’è una critica radicale della burocrazia e della burocratizzazione che oggi è quanto mai necessaria. Abbiamo dovuto attendere diversi decenni perché venissero fuori le analisi di David Graeber sulla burocrazia, sui “bullshit jobs”: un altro caso abbastanza isolato, una critica della burocrazia del lavoro a partire non da posizioni liberiste e individualiste, ma da posizioni libertarie, civiche e in qualche modo progressive.

GC: Illich a un certo punto ricorda a Cayley come, interrogato da un qualcuno di «bello, amorevole e vivo», se lui si curasse o meno dei bambini «con il ventre gonfio e le gambe a stecco, di coloro che nel Sahel si ammalano di kwashiorkor» e muoiono di fame, la sua reazione immediata è: «Farò tutto quello che posso per eliminare dal mio cuore qualsiasi senso di cura nei loro confronti. Voglio piuttosto provare orrore. Voglio veramente sentire questa realtà di cui tu mi informi. Non voglio sfuggire al mio senso di impotenza e cadere nella pretesa che me ne curo e che faccio o ho fatto tutto ciò che era possibile. Voglio vivere con l’ineludibile orrore di questi bambini, di queste persone, nel mio cuore, e sapere che non posso amarli veramente, attivamente. Perché amarli — almeno per come sono fatto, dopo aver letto la storia del samaritano — significa lasciare da parte tutto quello che sto facendo in questo momento e tirare su da terra quella persona. Significa prendere con me tutto quello che ho, nella mia piccola sacca di denarii d’oro, e portare questo tizio in una locanda — che a quel tempo valeva a dire un bordello — come fece quel palestinese con l’ebreo che era caduto nelle mani dei ladri, e dire: “Per favore, prendetevi cura di questo tizio. Spero di aver fatto qualche soldo in più quando sarò di ritorno così vi pagherò il resto delle spese”». In questo buio che ci viene raccontato qual è la possibilità di azione per l’essere umano?

GB: A me verrebbe da dare due risposte che valgono contemporaneamente. Lo stesso Illich ha risposto in questi due modi in diverse fasi della sua vita: uno è quello della sua fase più battagliera e militante degli anni Settanta, che in questo libro, vent’anni dopo, riassume dicendo: non voglio accettare questa idea di cura burocratizzata, perché mi impedisce di andare a incatenarmi ai cancelli di una multinazionale qua a New York che sfrutta e provoca l’inaridimento e il cambiamento climatico nel Sahel. Cioè una risposta in cui individua questo punto: invece di assecondare la burocratizzazione della cura, di immaginarla come qualcosa che riguarda una istituzione deputata a elargirla, fare invece qualcosa immediatamente. C’è però anche un’altra parte che cresce nell’ultima fase della vita di Illich, che è quella che lui definisce «powerlessness», cioè diciamo l’essere senza potere. Nell’ultima fase della sua vita è qualcosa che Illich invita in qualche modo ad accettare. Risuonano le posizioni di altri pensatori: penso ad Aldo Capitini: la sua critica della società dell’attivismo, una società che lascia ai margini gli spezzati, quelli che non ce la fanno, quelli che sono stati travolti; un’apertura verso una dimensione che non è solo attivistica, che riconosce una dimensione di rifiuto del potere. Queste sono due posizioni che vanno viste insieme, l’una il rovescio dell’altra. Quell’idea di «soffiare per riaccendere la fiamma nel buio» è una cosa che Illich cita da quello che lui ha considerato un suo grande maestro, il vescovo brasiliano Hélder Câmara. Era una sua frase dopo una conversazione drammatica con un torturatore del regime brasiliano: lui si siede, spossato e dice: «Bisogna solamente soffiare e soffiare, soffiare, e non importa se poi si riaccenderà o no la fiamma, ma può sempre riaccendersi».

GC: Nel 2020 in Italia sono usciti due libri importanti su Illich: “Una fiamma nel buio” e “Celebrare la consapezolezza”, curato da Fabio Milana e pubblicato da Neri Pozza. È singolare che un autore non così frequentato sia tornato, almeno in forma di libro, a bussare due volte alla nostra porta. Perché è importante ritrovare Illich, le sue parole e i suoi scritti?

GB: Direi che con tutto quello che ci siamo detti oggi abbiamo già risposto. Basterebbe il filone della riflessione sulla controproduttività per renderlo assolutamente essenziale al nostro tentativo faticoso, quotidiano di capire qualcosa di quello che ci circonda. Questi due libri incarnano abbastanza bene due strategie del lavoro su Illich molto diverse: quello che ho curato io per elèuthera, che è tra l’altro una nuova traduzione rispetto a quella che aveva pubblicato nel 1994, è un libro “panoramico” sul lavoro di Illich, e la sua ricchezza deriva in gran parte dal fatto di essere accompagnati da Illich stesso in questo pellegrinaggio lungo la sua vita. È un libro che riguarda l’introduzione alla sua vita e al suo pensiero. Il lavoro di Fabio Milana pubblicato da Neri Pozza è il primo volume delle opere complete, un progetto vastissimo (il primo volume conta quasi mille pagine), ed è invece un lavoro assolutamente filologico e scientifico: quello che mancava nell’opera illichiana fino a questo momento in Italia (e forse addirittura in generale in tutte le lingue): è il primo pezzo di un lavoro sistematico di scavo e ricostruzione puntigliosissima che Fabio ha fatto in anni e anni di lavoro, che non ha pari nelle edizioni illichiane in nessun’altra lingua. Erano iniziate pubblicazioni di opere complete in Messico, in spagnolo, e in Francia, ma diciamo che erano delle compilazioni, per quanto complete e sistematiche, di tutt’altro livello di profondità rispetto a questa. Il primo volume riguarda solo la fase di Illich precedente ai suoi pamphlet divenuti famosi negli anni Settanta, quindi questo primo grosso tomo è solamente sull’Illich che riguarda praticamente solo un libro precedentemente pubblicato, che era appunto “Celebration of Awareness” (“Rovesciare le istituzioni” nel titolo di allora in italiano), e mette insieme invece una quantità spropositata di testi, alcuni pubblicati in edizioni locali (per esempio in lingua spagnola in America latina) e moltissimi testi sciolti, sfusi, compresa la tesi di dottorato di Illich scritta giovanissimo a Salisburgo. Un lavoro quindi di vastissima profondità di studio, che speriamo continui anche nei prossimi anni con i volumi successivi.

GC: Una domanda che viene dal pubblico: a proposito di scarsità, sembra che in questo particolare momento la soluzione ai problemi della scuola (didattica a distanza in primis) sia “più scuola, sempre più scuola”, vedi proposte come l’allungamento dell’anno scolastico. Come si porta Illich nella scuola contro la scuola?

LM: La domanda tocca un argomento che avrebbe forse molto divertito Illich. (Una cosa che non abbiamo detto abbastanza è l’ironia con cui Illich ha affrontato questi temi, anche quelli per lui più sofferti e per certi versi apocalittici.) Chi insegna in questo periodo non può non rendersi conto della follia di pensare che qualunque cosa stia succedendo intorno, il bisogno primario, soprattutto per i bambini e per i ragazzi, sia “più scuole”: quindi piroette, salti mortali per connettere le persone. Mi sono chiesto se si può fare un paragone, per esempio, con gli anni di guerra: se si pensa agli intellettuali, ma anche alla letteratura che ha raccontato quegli anni, si vede che sono stati anni di grande formazione per chi li ha vissuti. Ovviamente non sto augurando la guerra a nessuno: dico che però le crisi possono essere occasione di formazione, e quindi mi chiedo per esempio se nei primi mesi di lockdown non avrebbe avuto più senso che le persone, i ragazzi in primis, potessero vivere quel tempo in un altro modo che stare otto ore appiccicati a un video, e invece riflettere su quello che stava succedendo, leggersi qualche libro. Credo che sarebbe stato sicuramente formativo. Non so se questa sarebbe stata la risposta che avrebbe dato Illich, ma io l’ho vissuta in questi termini.

Rispetto all’operazione di Milana, mi sembra che sia importantissima, un lavoro che crea un collegamento che qualcuno ha fatto negli ultimi dieci anni di vita di ricerca di Illich, quelli legati all’idea del pervertimento del cristianesimo, con le prime esperienze di giovane prete e di giovane in formazione. Una cosa su cui Fabio ha lavorato, che purtroppo ancora non è pubblica, è la biografia di Illich negli anni di formazione: penso che anche da lì verranno fuori delle cose interessanti.

Non posso non concludere suggerendo la lettura delle conversazioni che Giacomo ha ritradotto, perché sono una lettura bellissima, appassionante, in ragione anche del fatto che nelle interviste Illich è meno freddo, meno tetragono come è invece nelle sue opere più sociologiche: è un Illich più ironico, più sofferto, più umano, e quindi può essere un buon consiglio, come diceva Giacomo, quello di partire da qui.

GC: Vi chiediamo, in conclusione, di lasciarci con una parola, una sola, che racchiuda il senso dei temi che abbiamo attraversato intorno a Illich.

GB: Andrei sul facile, visto che è una domanda impossibile, e direi controproduttività.

LM: E io consapevolezza.

“La sintassi della libertà. Arte, pedagogia, anarchia”
di Pietro Gaglianò, Gli Ori, 2020

Intervista e redazione a cura di Gabriella Traviglia e Ivan Pagliaro

3 aprile 2021

IL LIBRO – La sintassi della libertà (Gli Ori, 2020) rilegge due secoli di storia ricucendo i termini della relazione tra arte e pedagogia libertaria. Il pensiero anarchico funziona qui come un dispositivo dialettico tra i due ambiti, per esaltare la continuità tra il potenziale di emancipazione dell’arte e quello dell’educazione. Da Courbet al Situazionismo, da Bakunin a Paul Goodman, da John Cage a Judy Chicago, fino ai protagonisti della scena artistica contemporanea analizzata da un punto di vista poco consueto che privilegia il margine e l’ibrido, il libro percorre il pensiero e le vicende di artisti, rivoluzionari e appassionati pedagoghi, in un movimento continuo tra Europa e America.

L’autore – Pietro Gaglianò (1975) è critico d’arte e curatore indipendente. Dopo la laurea in architettura ha approfondito il rapporto tra l’estetica del potere e le contronarrazioni agite dall’arte, prediligendo il contesto urbano e sociale come scena dei linguaggi contemporanei, con una particolare attenzione per i sistemi teorici della performance. Nei suoi libri e nelle sue mostre è centrale la sperimentazione di formati ibridi tra arte e scienze sociali per coltivare la percezione politica dello spazio pubblico e della comunità. Su questo tema ha pubblicato, oltre a numerosi saggi, La sintassi della libertà. Arte, pedagogia, anarchia (Gli Ori, 2020) e Memento. L’ossessione del Visibile (Postmedia Books, 2016). Insegna in istituzioni italiane e statunitensi ed è attivo in progetti e reti internazionali che sperimentano pratiche di arte e pedagogia non formale per l’educazione contro la discriminazione.

Per ascoltare la scheda di presentazione sul rapporto tra arte e anarchia realizzata dalla Tribù della Foglia Verde della scuola media “Dante Alighieri” di Quarrata, scannerizza il codice QR.

Nel tuo libro emerge una ragnatela di relazioni tra ambiti (apparentemente) distanti tra loro: arte, pedagogia e anarchia, che insieme compongono questo trittico della libertà.

In questo tuo libro, dove rileggi gli ultimi 150 anni di storia dell’arte proprio da questa triplice prospettiva, le relazioni sono così intrecciate tra loro che è davvero difficile fare una sintesi, ma oggi ci proveremo.

Nelle prime righe della tua introduzione citi Breton al congresso degli scrittori di giugno 1935: «L’attività di interpretazione del mondo deve continuare a essere legata all’attività di trasformazione del mondo. Sta al poeta, all’artista, approfondire il problema umano in tutte le sue forme, il procedere illimitato del suo spirito in questo senso ha un valore potenziale di mutamento del mondo».

Cosa c’entra quindi l’arte con la trasformazione del mondo? E perché è in particolar modo legata al pensiero anarchico?

L’arte è strettamente connessa alla possibilità di trasformazione del mondo perché l’arte coincide strettamente con la possibilità di immaginare il mondo. Negli ultimi secoli si sono verificati molti episodi in cui si assiste alla scelta di intraprendere un’azione di resistenza da parte di individui, o gruppi, che apparivano al tempo disperati: pensiamo alla resistenza al nazismo, la resistenza al fascismo in Italia, ai movimenti nati per la difesa e l’acquisizione di diritti uguali per tutti, ad esempio nella comunità afroamericana negli Stati Uniti. Tutte le persone che hanno cominciato a combattere non sono animate dalla certezza che la loro lotta darà un esito positivo, ma dalla loro capacità di immaginare un mondo diverso, quindi la facoltà immaginativa è un’azione creativa.

In questo senso l’arte facilita e innesca visioni alternative del mondo. Spesso agisce per effetto di ricaduta; così come per effetto di ricaduta può essere trovata bella o anche piacevole, ma quello che di fatto l’arte fa, anche a dispetto della volontà che sta dietro l’opera, è che ci possa essere di intravedere un volontario messaggio politico.

L’arte apre una possibilità di visione. Anche la più banale delle opere sta dicendo, in totale semplicità, che — al di là del mondo così come ci è stato consegnato dai costrutti di disperazione imposti dal potere — esiste un altro mondo possibile.

Lo si può vedere in una condizione bidimensionale su tela, in una performance, ma si tratta di quello che diceva Artaud a proposito del teatro: «Ogni volta che noi siamo al cospetto di un’opera d’arte assistiamo all’irrompere di un mondo», quindi l’arte non agisce direttamente sulla trasformazione del mondo, ma prospetta possibilità, strade con cui attraverso altri mondi; quei mondi che l’arte porta con sé possono incidere sulla trasformazione del mondo.

Passiamo a parlare degli spazi dell’arte con Paradise Now, uno spettacolo teatrale messo in scena dalla compagnia newyorkese del Living Theatre tra il 1968 e il 1970, esempio di via di mezzo tra teatro e happening e che vede gli artisti impegnati come attivisti.

Nel secondo atto gli attori, interrogati su cosa vogliono rispondono: «Reinventare l’amore. Rendere creativo ogni momento. Essere libero dalle forze dello Stato. Essere libero di creare. Sbarazzarsi di una vita di avidità materiale. Smettere di deformare la mente della gente. Come si chiama? Anarchismo. Che cos’è l’anarchismo? Paradiso subito».

Lo spettacolo termina con: «The theatre is in the street. The street belongs to people. Free the theatre. Free the street. Begin» / «Il teatro è nella strada, la strada appartiene alla gente, liberate il teatro, liberate la strada, cominciate».

Gli spazi dell’arte sono o possono essere o devono essere necessariamente spazi di riconquista della Libertà?

Gli spazi dell’arte intesi come luoghi in cui si esperisce l’arte — sia quelli tradizionalmente deputati (teatri, musei, sale espositive), sia quelli meno convenzionali (dalla strada ai garage) — sono inevitabilmente spazi di liberazione, perché l’arte è sempre animata dal movimento che abbiamo descritto prima e, in modo indifferente rispetto alla forma con la quale si propone, ha sempre questa propulsione di emancipazione; gli spazi dell’arte, perciò, sono sempre e comunque luoghi di libertà. Naturalmente bisognerebbe fare un distinguo su che cosa viene definita arte, sui suoi confini, sulle sfumature tra l’arte e le forme comunicative della propaganda, sulle inevitabili — e a volte anche fertili — contrapposizioni tra l’arte e l’intrattenimento.

Vorrei però tornare a parlare di quella rivoluzione culturale a cui accennavi all’inizio del tuo intervento: si tratta di qualcosa che è stato argomentato in modo molto stringente e molto convincente da uno dei grandi teorici dell’arte del secondo Novecento negli Stati Uniti: Leo Steinberg (1920-2011). In opposizione al dogmatismo dei critici del modernismo (e cioè gli ossessionati della tela, che proponevano un’idea “evoluzionista” dell’arte, che comincia col medioevo e si conclude con l’astrazione della forma e della matericità dell’opera), Leo Steinberg proponeva le esperienze che andavano manifestandosi in modo diffuso, brillante, eversivo proprio in quegli stessi luoghi in cui c’erano i maestri del modernismo, e il caso più eclatante è quello di Robert Rauschenberg (1925-2008), protagonista indiscusso dell’arte contemporanea sui due secoli che ha attraversato, allievo di John Cage e di Willem de Kooning,  che tra i maestri del modernismo è stato uno dei più apprezzati dal pubblico, anche perché più intelligibile e più familiare rispetto alle astrazioni di altri come Jackson Pollock.

Una delle prime opere di Rauschenberg, poco più che ventenne (siamo nel 1953), è un disegno cancellato di de Kooning: si fa dare dal suo maestro un disegno — scelto assieme, non è stata un’azione violenta e iconoclasta — lo cancella e lo incornicia e infine applica la scritta «Questo è un disegno cancellato di de Kooning». Si tratta quindi di un atto fortemente performativo, in cui è l’azione del corpo a compiere una personalizzazione su quello che poi viene visto, ma è anche una dichiarazione di emancipazione rispetto ai dogmi di un’arte che voleva esprimersi soltanto attraverso una pittura fortemente irregimentata in quadri estetici definiti in quegli anni più dalla critica che dagli artisti.

Dopo pochi anni, già alla fine del 1958, la cifra rivoluzionaria di Rauschenberg prende forma nei primi combining paintings: sono opere in cui assembla lampade, materassi, plaid, cuscini, capre impagliate, copertoni di automobili, e ci dipinge sopra. Questi combining paintings sono i “nonni” delle installazioni che vediamo oggi in quasi tutte le mostre, e vennero utilizzati da Leo Steinberg per definire questo passaggio importantissimo compiuto dalle estetiche del New Dada. Una rivoluzione che va dalla posizione verticale che l’osservatore intrattiene con l’opera — quindi con un’opera stante, su un piedistallo o appesa ad un muro — a una dimensione orizzontale. L’orizzontalità non è tanto nella posizione dell’opera, ma nella percezione che si attiva all’interno della mente dell’osservatore, perché il pubblico non può comprendere quell’opera senza una comprensione della società che lo circonda; l’orizzontalità sta quindi in questo considerare — attorno a sé e all’opera, e al rapporto tra sé e l’opera — l’intera pluralità delle espressioni sociali, dunque anche quelle commerciali, pubblicitarie, egemoniche. È l’inizio di una di una teorizzazione che di fatto inquadra una rivoluzione innescata dai dadaisti già una cinquantina di anni prima, ed è tuttavia il linguaggio artistico che più di ogni altro caratterizza l’inoltrarsi degli artisti in un secolo, il Novecento, in cui le tensioni tra il potere e la libertà di espressione rappresentano l’arena della ricerca artistica.

E tutto questo in che modo ha a che fare con l’anarchia? Ognuno di questi gesti eclatanti, eversivi — sicuramente animati anche da una buona dose di volontà di provocare — prima di essere riassorbiti nella storia dell’arte, musealizzati, hanno causato e dimostrato la possibilità di quell’irruzione del mondo. Ogni artista si fa autore della propria emancipazione e ogni osservatore può fare questo balzo, anche se c’è il rischio di cadere. Nella famosa lettera del veggente, un secolo prima, Arthur Rimbaud parla di questo salto [Lettera a Paul Demeny, 1871]: magari si cade nella metà del balzo, ma non importa perché «altri orribili lavoratori verranno» dopo di noi a continuare quello slancio, non verso la libertà, ma verso l’emancipazione.

Mi sembra importante segnalare come, sia per il pensiero anarchico, sia per l’esperienza dell’arte, che io vedo correre sempre paralleli, la libertà non è l’oggetto di una definizione univoca. Non è qualcosa che si può definire, tesaurizzare in modo permanente: la libertà è il raggiungimento della libertà. La libertà di fatto coincide con il continuo sforzo, con il continuo impegno per la liberazione di coloro che ancora non sono stati liberati e per la nostra stessa soggettiva emancipazione; quindi pensare di essere liberi è il primo passo per trovarsi e le braccia mani e caviglie e polsi legati.

Stiamo per ascoltare un estratto dal film Paradise Now (1970) di Marty Topp, che documenta la realizzazione dello spettacolo. Vuoi introdurlo?

Voglio accennare brevemente alla straordinaria avventura umana e artistica di questa coppia, Judith Malina e Julian Beck, che sono stati tra i fondatori, e poi gli animatori e prosecutori del Living Theatre dopo che il collettivo si è sfrangiato all’indomani dell’avventura europea, alla fine degli anni Sessanta.

In prima persona Malina e Beck hanno vissuto gli abusi del potere, al punto che nel loro girovagare tra uno stabile e l’altro di Manhattan alla ricerca di una sala prove per il loro teatro finiscono sotto sfratto esecutivo, violento. Finiscono in tribunale e, assumendo in sé stessi la difesa, dichiarano di fronte al giudice di aver scelto di non pagare le tasse in modo da poter pagare i tecnici della compagnia. Erano rigorosamente coerenti con i loro presupposti, cioè dare vita agli spazi del possibile, al di là delle strutture, della burocrazia e dello Stato. Si sono nutriti di anarchismo grazie ad un grande protagonista del pensiero anarchico come Paul Goodman, che si ritrova anche nel Black Mountain College ed è stato autore di alcune delle pièce del primo periodo del Living Theatre.

Con Paradise Now arrivano nel 1968 al festival di Avignone, dove mettono in scena questa creazione collettiva con una costruzione veramente complessa in quadri e un testo avvincente, ma l’opera viene censurata. Questa è spesso una misura dell’efficacia dell’arte e della sua potenza nel proporre mondi e direzioni che rimangano indigeste al potere, anche quando si tratti solo del potere della direzione artistica di un festival. Da allora inizia il loro periodo più prolifico e si dirigono verso il Brasile — un Brasile sotto regime militare — dove portano autenticamente il teatro nella strada.

Una delle ultime produzioni del Living Theatre (realizzata prima della morte di Judith Malina nel 2015) viene ancora messa in scena, in strada, ogni volta che c’è bisogno di testimoniare o per segnalare un abuso su una persona o un gruppo minoritario. Sono autenticamente anarchici e così si definivano: con estrema coerenza, anche la gestione, la conduzione della compagnia, del collettivo, i contenuti, i testi, la forma del loro teatro sono un continuo sovvertimento delle regole che non ha mai smesso di mettere in crisi sé stesso. Questo è il concetto politico di rivoluzione permanente che noi mutuiamo da Gramsci, ma che ha le sue radici in Bakunin e nei pensatori anarchici dell’Ottocento.

Scannerizza il QR-CODE per vedere il film “Paradise Now”

[https://ubu.com/film/living_paradise.html]

Passiamo alla terza componente del tuo trittico, la pedagogia: nel primo incontro di Prendere la parola abbiamo parlato di una scuola atipica, quella del CIDOC di Cuernavaca, fondato da Ivan Illich negli anni Sessanta e da lui chiuso dopo dieci anni di attività.

Vorremmo parlare del Black Mountain College, che non è una “scuola d’arte”. È stato un luogo che per oltre vent’anni ha animato una ricerca irripetibile sia nell’arte, sia nell’educazione.

Più o meno l’esistenza del Black Mountain College dura ventitré anni, quindi dal 1930 fino al 1955-56. Nasce, in qualche modo, dalle ceneri del Bauhaus, ma nasce proprio come un’araba fenice, proprio perché accoglie alcuni tra i migliori e più interessanti docenti e studenti del Bauhaus (venivano chiamati il gruppo degli émigrés). Era un gruppo di artisti che scappavano dalla Germania nazista, dove l’ultima possibile l’esistenza del Bauhaus era stata annientata. Tutti loro erano radunati attorno all’autorevole figura di Josef Albers e alla moglie Anni Albers, forse meno celebre ma probabilmente più dotata artisticamente. Il Black Mountain College è l’incarnazione di un paradosso: si sviluppa in un periodo che coincide anche con l’avvio della Seconda guerra mondiale, quindi con una caccia alle streghe nei confronti del pensiero politico dissidente, in particolare di quello di sinistra. La scuola è stata a più riprese oggetto di alcune indagini negli anni Cinquanta e presenta alcune particolarità: è nata all’interno di uno Stato segregazionista come la North Carolina, ci mette un po’ di anni a decidere di ammettere studenti e studentesse afroamericane e tuttavia, rispetto al Bauhaus, introduce già una serie di novità, come la possibilità per studenti e studentesse di frequentare gli stessi corsi. Nella Bauhaus invece le studentesse erano indirizzate verso il tessile o al massimo alla fotografia, mentre i corsi di architettura erano riservati ai soli uomini. Anche l’omosessualità è malvista al Black Mountain College, e in generale la libertà sessuale è causa di più di una espulsione o di una lettera di dimissioni; lo stesso Paul Goodman verrà allontanato dal Black Mountain College per questo motivo. Comunque — al netto di queste pecche terribili, dal nostro punto di vista di cittadine e cittadini contemporanei — è il crogiuolo di tutta la sperimentazione artistica che dalla seconda metà del Novecento influenza e continua a influenzare ancora ai giorni nostri il carattere della contemporaneità.

Una serie di fattori contribuiranno a creare questa alchimia, dalla presenza di nomi eccellenti: tra i docenti Albers, appunto, e di passaggio Gropius, poi John Cage e Merce Cunningham, ospiti delle summer school, o tra gli studenti Robert Rauschenberg.

Soprattutto, però, alla radice c’è proprio la trasformazione e la maturazione dei metodi educativi, già presenti nel Bauhaus, rivisti nella chiave interpretativa di John Dewey, quindi secondo un metodo educativo basato sull’esperienza (disconoscendo così tutta la tradizione dell’educazione politecnica integrale che nasce col fourierismo). Possiamo sintetizzare alcune caratteristiche di questo metodo educativo: 1. la totale fusione delle attività pratiche con gli studi teorici; 2. l’interdisciplinarietà; 3. la fusione della vita quotidiana con il percorso educativo e scolastico (gli studenti sono infatti chiamati a tenere un orto, insieme coi docenti)

È una scuola che per tutta la sua esistenza verserà in impervie condizioni finanziarie, a completare il quadro, non è nemmeno riconosciuta come college dallo Stato della North Carolina, dunque non può rilasciare un titolo di studio valido sul mercato della formazione statunitense. Il corpo insegnante e il gruppo degli studenti sono costretti a mantenersi prendendosi carico dei lavori di manutenzione.

L’elemento che contraddistingue il Black Mountain College, nonostante tutti i celebri nomi che pure lo abitano, è il fatto che non è una scuola d’arte. Di conseguenza l’obiettivo di questo percorso educativo non è creare artisti. Il primo programma rilasciato da Josef Albers, che ne fu direttore per circa dodici anni, recita: «Attraverso l’esperienza artistica lo studente può comprendere l’ordine del mondo e, sensibilizzato al movimento, alla forma, al suono, e ad altri medium, può raggiungere un controllo di sé e dell’ambiente più saldo di quanto sia possibile attraverso uno sforzo puramente intellettuale […]. La nostra prima preoccupazione non è di scoprire gli artisti, pensiamo che il lavoro elementare dell’arte sia principalmente un mezzo di formazione generale, per tutti. Per quelli artisticamente dotati, poi, servirà come ampia base di un successivo studio specialistico».

Quindi si parla di un’educazione “non artistica”, ma piuttosto di un’educazione attraverso l’arte come materia di base, che è l’unico corso obbligatorio per tutti gli studenti e tutte le studentesse. L’arte è pertanto vista come passaggio preliminare per una più attenta e consapevole comprensione del mondo. Eppure stiamo parlando di persone che abitano il mondo accademico statunitense, quindi per quanto progressisti sono tutt’altro che libertari, e man mano che ci si addentra negli anni più cupi del dopoguerra e all’inizio degli anni Cinquanta questo aspetto è sempre più evidente.

Tuttavia c’è questa intuizione fortissima: Rice, il fondatore della scuola, affiderà ad Albers, che si era appena dimesso dal Bauhaus, la direzione. C’è un aneddoto che più di ogni altra chiacchiera può descrivere qual era l’intenzione di Albers, che tutto sommato era un compassato signore tedesco, faceva una pittura molto composta e che poi, dopo anni, arriverà al celeberrimo Omaggio al quadrato (1959): quando arriva negli Stati Uniti non sa parlare bene l’inglese e arrivato in questo luogo sperduto e bellissimo, sulle rive del lago Eden, uno studente gli chiede «Che cosa ci insegnerà?» e lui risponderà nel suo inglese maccheronico «To open eyes». Ovvero “ad aprire gli occhi”. Non si tratta di “insegnare a fare qualcosa”, ma ad entrare in uno stato di percezione e di attenzione dal quale poi è possibile imparare a fare qualsiasi cosa. Senza saperlo Albers, che era anche severo, fortemente critico, molto irritabile, si stava inserendo “quasi” nella tradizione anarchica, oppure comunque sicuramente ispirata al pensiero libertario del maestro ignorante, protagonista poi un meraviglioso saggio di Jacques Rancière.

In ultima battuta, vorrei dire perché mi sento così affezionato al Black Mountain College, io che sono entrato nel mondo dell’arte attraverso la danza contemporanea, e quindi della performance: proprio lì ha avuto luogo, nel 1952, il primo “liquido amniotico” della performance come la conosciamo oggi, con Untitled Event, “l’evento senza titolo” orchestrato anarchicamente da John Cage, che fornisce delle partiture con soltanto i tempi di esecuzione ma senza contenuti a poeti, musicisti, artisti e danzatrici che animano lo spazio — tra l’altro uno spazio non deputato: il refettorio del college. Questa performance, forse nemmeno chiamabile come tale, è indimenticata e indimenticabile, per quanto non ne esista nemmeno documentazione. All’epoca per fortuna non c’erano gli smartphone ed esisteva ancora la possibilità di investire degli accadimenti di una proliferazione di senso che oggi invece trovo pericolosamente appiattita nella riproducibilità. Non voglio essere old style, ma oggi noto anche nelle studentesse e gli studenti dei corsi di performance che danno più peso, più rilievo, e impiegano più energie nella documentazione che non nella nell’esperienza stessa dell’esecuzione.

Restiamo in ambito scolastico, educativo e artistico, ma arriviamoci da fuori, ovvero dalla strada. Nel tuo libro dedichi spazio ad artisti e artiste contemporanee e io vorrei proprio parlare di un’artista contemporanea: Suzanne Lacy. La fotografia di una sua performance a New York, Between the Door and the Street (2013), campeggia sulla copertina del tuo libro. È una bella fotografia “tra la porta e la strada”, che mostra quindi un carattere liminare ma in una soluzione quanto mai di contatto, di confronto. Si percepisce una orizzontalità in questa conversazione messa in scena nella performance, una modalità sicuramente al cuore del lavoro di Suzanne Lacy. Questo genere di performance non è per niente lontana da un atteggiamento di egualitarismo radicale, che è anche pedagogico e si trova in realtà molto vicino al saggio sul maestro ignorante di cui parlavi prima. In questo saggio si parla di Jacotot, un insegnante tra Sette e Ottocento, porta alle estreme conseguenze l’idea che tra me che insegno e chi deve apprendere c’è una condivisione totale della stessa umanità, e questo deve necessariamente rivoluzionare il mio modo di interagire, il mio modo di parlare, il mio modo di intendere l’apprendimento e l’insegnamento, in senso mai unidirezionale, ma necessariamente reciproco.

Suzanne Lacy è una delle grandi protagoniste del nostro tempo sia come artista che come pensatrice; è una prolifica scrittrice, attivista e femminista, ha studiato con Judy Chicago, che è una delle figure chiave nei rapporti tra arte e femminismo a cavallo degli anni Settanta.

Le sue performance, che nel corso dei decenni si sono sempre più connotate di uno stile oltremodo riconoscibile, sono davvero l’esito di queste due tensioni. Da un lato lei è fortemente animata da una passione per l’attivismo, insieme ad una forte convinzione per l’egualitarismo e i pari diritti; ma dall’altro c’è anche una forte consapevolezza estetica. È straordinario come questa artista sia riuscita a dare la parola a migliaia e migliaia di voci. Parliamo di migliaia di persone provenienti da diversi gruppi sociali, con differenti retaggi culturali e anche da diversi background economici: marginali, centrali, dominanti, intellettuali e non, e da varie nazioni, senza mai imporsi egemonicamente. Tu citavi Jacotot ma già prima di lui William Godwin, il padre nobile dell’anarchismo classico, parlava del paradosso dell’insegnamento. Dall’Illuminismo in avanti infatti l’insegnamento ha sempre dato un ruolo prioritario a chi insegna a discapito della controparte: chi apprende. Ho fatto un salto di due secoli ma credo sia importante per capire cosa fa Suzanne Lacy. Lei, al pari di molte altre artiste e artisti protagoniste delle esperienze anarchiche e libertarie, non fa riferimento all’insegnamento, ma all’esperienza dell’apprendimento. L’architettura dell’edificio scolastico erroneamente anche oggi dà maggiore priorità a chi insegna e non a chi apprende, ma una scuola esiste per chi deve imparare. Lei ribalta questa situazione e inizia da molto lontano, con un processo lungo e di equipe: lavora insieme a professionisti culturali, antropologi, mediatori ed entra in profondo contatto con alcuni gruppi comunitari, cercando di estrarne alcuni problemi sensibili, comuni e condivisibili. Prende in prestito strumenti dal mondo sociale ma non abbandona mai la chiave dell’arte autonoma e indipendente. È un approccio in cui l’arte non interviene per risolvere i problemi ma indica una possibile lettura di questi problemi. Questo succede anche in Between the Door and the Street dove Suzanne Lacy crea dei gruppi di conversazione in una strada di Brooklyn con donne provenienti da diversi segmenti della società, che si ritrovano proprio tra la porta e la strada. In questi gruppi le donne parlano tra loro di problemi legati al lavoro, all’età, al loro essere donne in una società patriarcale, all’essere afrodiscendenti in una società in cui pullulano i rigurgiti di suprematismo bianco. E questa è tutta l’opera, e le donne coinvolte sono riconoscibili dalla pashmina gialla che indossano. Un giallo che ritorna: delimita la strada in cui si trovano, e nei vasi di fiori sui tavoli… Queste donne in conversazione non sono delle sculture viventi, ma mettono in primo piano la loro consapevolezza di appartenere alla società. È attraverso questo dialogo che le une e gli altri, cioè gli spettatori che affollano la performance, possono comprendere qualcosa di più di quella reciprocità di cui parlavi nella tua domanda. La presenza del colore protegge il progetto di Suzanne Lacy, impedendo la confusione con la mediazione sociale: lei è come una pittrice, si limita a comporre, a disporre, non c’è nessun esercizio di egemonia; quel colore, pittoricamente, incornicia l’azione in una dimensione simbolica. Non sarà superfluo ricordare che simbolo deriva dal greco symballo, «metto assieme», connetto una dimensione con un’altra: questo è quello che fanno le/gli artisti.

Prima di salutarti ti chiediamo quale parola, una sola, ci lasci dopo questa conversazione.

È una parola che è sorta naturalmente nel corso di questa conversazione e quindi vi lascio la parola emancipazione. D’istinto mi sarebbe venuto da usare la parola libertà, tuttavia la libertà è un concetto, mentre l’emancipazione è un’azione. E io credo nella responsabilità che ci prendiamo quando, attraverso un continuo esercizio di emancipazione, cerchiamo di difendere la libertà.

RUTAS: promuovere lo sviluppo integrale della persona è possibile

Incontro con Roxi Montero, autrice del libro “Rutas” (Centro di Documentazione di Pistoia Editrice, 2021)
Dialogo guidato da Luca Cioni e Giulio Civilini.
Pistoia, Biblioteca San Giorgio, 12 giugno 2021

“Rutas”, è stato scritto intorno al 2005 e pubblicato nel 2006 per la prima volta a Cartagena de Indias (Colombia), ripubblicato poi nel 2013 in spagnolo. Il libro è stato scritto da Roxi Elena Montero Prens. Roxi è psicologa esperta in educazione, ricercatrice, professoressa universitaria e soprattutto fondatrice del centro CEDEI (Centro per l’Educazione, lo Sviluppo e la Ricerca), al cui interno ha sviluppato un modello, chiamato “Modello CEDEI”, nucleo centrale del libro “Rutas”.

Verso il concetto di Sviluppo Umano

Giulio Civilini (GC): Già dal titolo il libro si presenta come un manuale, ma non come un manuale standardizzato nella sua forma. La prima volta che l’ho letto mi sono trovato davanti al racconto in cui un vecchio professore, al termine di una conferenza, inizia ad interagire con i giovani insegnanti che assistevano alla formazione, e con i quali stabilisce un dialogo che avviene attraverso brevi scambi di parole e prosegue con un testo che il vecchio professore decide di lasciare a questi due docenti/studenti. “Rutas” quindi è un manuale ma non ha la forma tradizionale di un manuale, per cui riflettere su cosa sia l’educazione, cosa sia lo sviluppo interiore e integrale della persona non viene proposto solo con un fine speculativo, ma con un metodo scientifico e narrativo allo stesso tempo. Si discute su che cosa sia l’apprendimento, su che cosa sia lo sviluppo della persona, e lo si fa in maniera scientifica, in maniera più o meno filosofica. Per introdurci al modello CEDEI e al contenuto del libro, ti andrebbe di darci una definizione del concetto di apprendimento (anzi dell’apprendimento senza concetto) e dello sviluppo della persona? Che cosa si intende con queste due espressioni? Che cosa intendi tu con queste due espressioni?

Roxi Montero (RM): In primo luogo vorrei dire che ogni iniziativa, ogni modo di vedere l’educazione e lo sviluppo della persona porta con sé un modo di interpretare anche la vita e l’essere umano. Quindi parlare di educazione o di apprendimento, dal punto di vista del modello CEDEI, e quindi di “Rutas”, implica parlare della capacità che hanno gli esseri umani di decodificare la realtà e farla propria, trasformandola in maniera tale che ogni persona e ogni processo possa svilupparsi nel modo giusto. L’apprendimento visto così è un attributo intrinseco degli esseri umani e parlando di sviluppo umano rappresenta anche un modo per trovare la strada del proprio sviluppo. Quando parlo di sviluppo umano, parlo della nostra capacità di concepire il mondo in modo sempre più complesso. Di solito quando si parla di sviluppo umano si parla della prospettiva tradizionale, cioè si parla di evoluzione, di crescita, e quindi di Piaget, di Freud, e altri teorici che considerano lo sviluppo un processo che termina quando la persona raggiunge una certa età, un percorso che finisce di svilupparsi quando la persona raggiunge la maturità. Se vediamo, ad esempio, la teoria cognitiva vediamo uno sviluppo che finisce con l’adolescenza. Invece la concezione più vicina al modo di comprendere lo sviluppo secondo il modello CEDEI è quella che lo considera come un processo di trasformazione dell’essere umano che arriva a livelli più complessi del contesto in cui è immerso. Vuol dire che siamo immersi in processi di sviluppo sin da quando siamo concepiti fino alla morte; quindi è un processo continuo ma è anche un processo sul quale possiamo intervenire ed è per questo che “Rutas” propone un modello per incidere sullo sviluppo degli altri soggetti come facilitatori.

GC: Mi è venuto in mente, mentre parlavi, che nel libro la dimensione del concetto viene sviluppata in un’ottica ciclica: lo sviluppo integrale della persona presuppone un percorso ciclico?

RM: Certo, lo sviluppo della persona porta ad affrontare la stessa situazione simile partendo da livelli diversi di comprensione della stessa. Ad esempio quando abbiamo 3 anni ci troviamo in una situazione, sentiamo due persone parlare e abbiamo una comprensione di quello che stiamo sentendo che è diversa da quella che avremmo a 10 o 20 anni, perché lo stesso dialogo è nutrito dal nostro vissuto. Quindi questa visione ciclica dello sviluppo vuol dire che noi possiamo avere diverse opportunità per raggiungere le stesse capacità. In questo modo incrementiamo il controllo di ogni capacità, potendo iniziare un percorso di sviluppo in qualsiasi momento del nostro ciclo vitale, un percorso consapevole in quanto tutti viviamo un percorso di sviluppo. La differenza importante sta nel fatto che questo percorso può essere un percorso intenzionale, quando alla base ci sia la scelta di trovare il modo giusto/adeguato di arrivare a un livello più complesso e più ricco di appropriazione di quella capacità.

Riguardo ai ruoli nella facilitazione per lo sviluppo

Luca Cioni (LC): Addentrandosi in “Rutas”, parli in maniera molto chiara e concreta di aspetti metodologici che si associano all’ambito dell’educazione e della facilitazione dello sviluppo. Elementi come il tema dei ruoli, delle relazioni e degli spazi di apprendimento a cui hai appena accennato; ecco, in “Rutas” ci si riferisce per tutto il corso della narrazione al rapporto tra guida ed esploratore. In che maniera il rapporto tra guida ed esploratore può diventare un’occasione per costruire spazi di sviluppo e di coeducazione dai quali entrambi possono reciprocamente nutrirsi?

RM: Mi sembra che molti di noi che siamo qui abbiamo a che fare con l’educazione o con l’essere guida di altri nel loro percorso di sviluppo. Sicuramente ciascuno in base alla propria esperienza sa che nello scambio che sussiste tra un soggetto in sviluppo e un adulto o professionista che svolge un ruolo di guida, si realizza un processo di crescita anche per la persona più adulta o comunque così dovrebbe succedere. Non sempre accade perché a volte chi svolge questo ruolo ha un “ego” così grande che pensa che l’allievo non abbia niente da dare o da condividere. Quello che cerco di proporre in “Rutas” è che in questo scambio, quando è intenzionale, la persona guida, che chiamiamo facilitatore, vive un processo di sviluppo e questo scambio si trasforma in un’opportunità (per il facilitatore) per trovare nuove informazioni sia su se stesso che sull’altra persona. Io uso una frase del libro: “para ser guía hay que ser también explorador”, che vuol dire: “per essere guida si deve essere anche esploratore”. Quindi noi non possiamo permetterci di andare avanti in un percorso che non conosciamo. Nessuno di voi andrebbe in Colombia o nell’Amazzonia a fare un percorso guidato da un italiano che non sia mai stato in quel territorio. Per poter essere guida prima devi conoscere bene il percorso nel quale vuoi guidare. Quando facciamo il lavoro di facilitatori pensiamo che basti aver fatto l’università, pensiamo che in base a quello che impariamo in un’aula conosciamo abbastanza per guidare le altre persone. Noi abbiamo anche un nostro processo di sviluppo che dobbiamo conoscere sempre di più e approfondire questa conoscenza con un approccio scientifico, non solo incidentale o aneddotico. Affrontare il nostro sviluppo con quell’approccio ci permette di avere più strumenti idonei per essere un facilitatore capace, una guida giusta. Perché di fatto i bambini e i ragazzi, i componenti della comunità, credono nel facilitatore, si affidano a quello che esso dice riguardo ciò che è giusto o sbagliato. Se noi diciamo a un bambino o ragazzo che lui non è in grado di fare qualcosa, lui farà di tutto per darci ragione, anche perché si instaura un rapporto emozionale che media tra il facilitatore e il partecipante. Quindi questo esercizio (quello della facilitazione dello sviluppo) è un esercizio che deve essere consapevole. Conoscere il proprio processo di sviluppo, conoscere lo sviluppo umano, approfondire una conoscenza scientifica dello sviluppo e vedere quali dettagli siano utili per ogni persona con cui si lavora, per ogni bambino, per ogni ragazzo. E quindi così come il mio percorso di sviluppo è unico, devo capire che anche il processo delle persone con le quali lavoro è altrettanto unico.

Le premesse esperienziali alla scrittura di “Rutas”

LC: Allora mi dai l’opportunità di chiederti: “Rutas” è una realtà vissuta prima di tutto sulla tua pelle, e quindi raccontata a partire dalla tua esperienza personale in maniera allegorica, anche se con un fondamento scientifico? Nel testo si fa riferimento alla vita come un labirinto dove ci possiamo perdere ma anche ritrovare, come percorsi che possiamo intraprendere, a porte che riusciamo ad aprire e a tesori che possiamo trovare. Ecco ti chiedo quindi: con che taglio esperienziale — ricordiamo che “Rutas” è stato scritto 15 anni fa nel contesto geopolitico e geografico dell’America latina, precisamente a Cartagena in Colombia — personale, di impegno sociale e civile hai aperto la porta di “Rutas”?

GC: Per integrare la domanda, puoi fare riferimento alle comunità e ai gruppi sociali in cui hai lavorato? Perché questo è un lavoro che tu fai da tutta la vita e quindi quello che racconti nel libro è frutto sia di una riflessione scientifica, perché lavori in ambito scientifico, sia il frutto di un’esperienza del lavoro sul campo in un contesto diverso dal nostro.

RM: Di solito quando io parlo con i miei studenti dell’università dico loro che quando si studia un autore è importante conoscere il contesto nel quale lui è cresciuto e che ha anche contribuito alla sua opera. Perché l’interpretazione di quello che viene detto non può essere staccata da chi lo dice, dalla sua vita, dal suo percorso. Diciamo che “Rutas” rappresenta una raccolta non solo della vita ma anche di un lavoro di ricerca fatto da quando ero molto piccola devo dire. Prima è stata un’esperienza della mia vita come parte di gruppi di giovani della parrocchia (io sono cattolica), nei quali però mancava una linea, un metodo per toccare le persone più nel profondo; era più un “fare”, non un “diventare”, “trasformarsi”, era un lavoro di “attivismo”. Solo dopo ho cominciato a trovare altri ragazzi che avevano la stessa mia inquietudine ma che venivano da un’altra realtà: alcuni non avevano nessun tipo di credo religioso ma ci siamo trovati insieme in un luogo chiamato “Fundejoven”. Era un luogo dove si incontravano persone che non avevano trovato ancora un luogo dove “essere”, perché la nostra testa andava in altre cose diverse rispetto a quelle della nostra generazione. Decisi di studiare psicologia, ed è per questa ragione che sono andata all’università: è lì che ho cominciato un percorso di ricerca per capire che cos’è che veramente fa la differenza tra un processo di promozione dello sviluppo efficacie per la vita di una persona rispetto a uno inefficacie. Ho coinvolto inizialmente giovani provenienti dalla Colombia e da altri paesi dell’America latina, e poi ho realizzato la mia tesi di laurea per identificare i fattori di tale differenza. 

Successivamente ho approfondito la mia ricerca riguardo ai processi di sviluppo. Una delle cose che ho scoperto è questa: si parla di componenti della persona, però non esiste una teoria di sviluppo che possa parlare dell’essere umano con un approccio integrale. Possiamo trovare una teoria che parla dello sviluppo morale, la teoria di Kolhberg per fare un esempio, un’altra teoria che parla dello sviluppo della personalità del soggetto senza parlare della teoria dello sviluppo biologico, come per esempio succede con la teoria dello sviluppo psicosociale o la teoria dello sviluppo psicosessuale o ancora possiamo trovare altre teorie che si centrano sullo sviluppo dell’estetica. Ognuna di queste teorie sembrava scontrarsi con le altre, ognuna di queste sembrava escludere le altre. I sostenitori delle diverse teorie sembrano escludere ogni possibilità di sintesi: se ti piace il conduttivismo, non ti può piacere il costruttivismo e non ti può piacere la psicoanalisi. Dopo aver studiato più o meno 8-9 anni queste teorie ho capito che ciascuna di esse esamina lo stesso oggetto ma da una prospettiva diversa, questo vuol dire che si centrano su un aspetto specifico dell’essere umano e di una parte specifica del corpo umano. Non è sempre vero che queste teorie si oppongono l’una all’altra, semplicemente parlano di parti diverse dell’oggetto che trattano. Quindi ho iniziato a costruire una prospettiva dello sviluppo umano che ho chiamato “la prospettiva della potenzialità” e che ho provato a mettere in dialogo con altre prospettive che si approcciano al soggetto, cioè a noi come esseri umani.

Poi la grande domanda: come si fa nella pratica a fare qualcosa con questa teoria “pazza” che ho tirato fuori dalla manica? E quindi la vera domanda è: si può o non si può? Ho iniziato un processo di formazione con altre persone che erano in sintonia con una metodologia che parte dalle necessità di ciascun soggetto. Per quattro anni abbiamo sperimentato questo in realtà diverse. In America latina la diseguaglianza tra le persone, anche nello stesso luogo o nella stessa città, la differenza tra quelle che hanno tutto e quelle che non hanno niente è veramente grande. Nonostante questo, quello che ho capito è che con tutti si può lavorare allo stesso modo, sempre che si parta dalla realtà nella quale ognuno di noi è immerso, e quindi dalla premessa che ognuno di noi è diverso.

La prospettiva delle potenzialità ha cominciato a essere sperimentata per esempio con organizzazioni sociali che lavoravano all’interno di scuole, con piccoli gruppi di ragazze, con organizzazioni più grandi e ricche. Il mio obiettivo era capire se questa premessa e questa “Teoria del Cambiamento” (“Theory of Change”) — che era sottesa a quanto io proponevo — fosse applicabile in modo universale. Trascorsi questi tre anni, con i miei amici abbiamo realizzato il primo schema del “Modello CEDEI” che ha dato origine a “Rutas”. Quindi “Rutas” è un prodotto molto prematuro, perché, dopo il libro, sono passati 15 anni, durante i quali il “Metodo CEDEI” è stato implementato attraverso progetti e processi operativi. Infatti dicevo poco fa ai miei due intervistatori che se ad oggi tornassi a scrivere questo libro forse scriverei le stesse cose, ma le racconterei in un altro modo. Fa parte della crescita, fa parte di questo esercizio di alimentarsi ogni volta di più.

LC: Avendo affrontato in “Rutas” il tema del metodo dei Tre Momenti dello sviluppo della persona, dove ne parli attraverso immagini e figure simboliche, come ad esempio “La Città dei Tre Momenti”. Puoi dirci a cosa ti riferisci?

Roxy: È una metafora, fondamentalmente. Parlo dei Tre Momenti per lo sviluppo dell’autonomia. Tutti gli animali, non solo gli esseri umani, hanno bisogno di acquisire attraverso delle prove le capacità che li rendono autonomi. Quando hanno lì vicino qualcuno che fa loro da guida, l’acquisizione di quelle capacità è più veloce; è per questo che di solito il processo educativo inizia da un momento direttivo, in cui c’è una persona che ha la capacità, ha il controllo di quella capacità, e dice all’altra persona cosa fare e come farlo; quindi colui che si trova nel ruolo di partecipante, per esempio lo studente, fa quello che gli viene detto, lo fa quando gli viene detto, e lo fa in modo coerente a come gli viene detto, altrimenti sarà “bocciato”. Di solito il processo educativo finisce qui, non va oltre il momento direttivo. Questo è un momento necessario, non è un momento banale, è molto importante, ma non è sufficiente, diciamo che non basta per arrivare all’acquisizione della capacità da parte del soggetto, e infine della sua autonomia.

Il soggetto ha bisogno di arrivare a un punto dove sia lui stesso in grado di dire cosa fare e come farlo, ed è quello che chiamo momento autonomo, il Terzo Momento. Tra questi due momenti ci deve essere una fase in cui il facilitatore dia la possibilità al soggetto di partecipare, di prendere decisioni insieme a lui e agli altri partecipanti coinvolti, di condividere la responsabilità. Siccome a volte è molto difficile spiegarlo, si usa una metafora. Il libro lo spiega in maniera scientifica e metodologica, però il libro è pensato non solo per chi ha un pensiero lineare, ma anche per quelli che hanno un modo di avvicinarsi alla realtà in maniera diversa o che hanno un approccio più visuale o ludico; quindi il libro mostra ogni tanto immagini e didascalie che introducono a questo modo di vedere la realtà. La Città dei Tre Momenti rappresenta proprio questo: è un modo per raccontare come vengono vissuti il momento direttivo, il momento partecipativo e il momento autonomo, tale che qualsiasi persona, bambino o adulto, sensibile alla scienza o all’arte, possa convivere in armonia con le altre persone.

“Rutas” è anche una proposta politica

GC: Vorrei riprendere il filo del discorso. La primissima domanda cercava di dare una definizione di cosa è lo sviluppo e siamo arrivati a dire che si può parlare di sviluppo integrale della persona a partire dalla considerazione che questa fa parte di una comunità e partecipa in maniera consapevole ed intenzionale allo sviluppo del gruppo a cui appartiene. Quindi ti domando se secondo te, parlare di sviluppo umano e attivare concretamente un processo di sviluppo, comporti delle implicazioni di tipo politico. Se ci mettessimo a parlare di scuola, di educazione, non si finirebbe più, quindi ti faccio la domanda in questi termini più generali.

RM: Prima di risponderti, vorrei chiarire una cosa. Lo sviluppo umano accade con o senza consapevolezza, diciamo che è un qualcosa che non si può fermare. Quindi quello che voglio dire è che la consapevolezza fa sì che lo sviluppo diventi uno sviluppo progressivo autonomo e che la persona arrivi a livelli più alti di sviluppo. Però (lo sviluppo) avviene comunque.

GC: Ma hai detto che l’obiettivo è l’autonomia.

RM: Certo, l’obiettivo è che il soggetto raggiunga un buon livello di consapevolezza della propria capacità di svilupparsi. L’essere umano è perfettibile, non è perfetto; quindi non arriverà mai a un punto dove non possa essere migliore. Questa condizione di perfettibilità permette che ciascuna persona possa cercare di migliorarsi durante tutta la sua vita.

Detto questo, quanto affermo è di fatto una proposta politica, perché quando si parla di sviluppo non si può prescindere dalla realtà nella quale siamo immersi. Una delle dimensioni delle quali parlo nella prospettiva delle potenzialità è la dimensione politico-sociale, perché l’essere umano ha bisogno di imparare che “cada cosa que hace impacta en su vida y en la de los demàs no solo en el momento presente, sino cada una de las decisiones que toma incide en la realidad social de la que hace parte”. Allora proporre un modello come questo vuole dire proporre per forza una scelta politica. Parto dalla definizione dello sviluppo umano di Bronfenbrenner secondo il quale lo sviluppo consiste nell’arrivare a livelli di comprensione di una realtà più complessa, quindi uscire dal microsistema, cioè la mia realtà più vicina, i miei amici e la mia famiglia, per capire che quello che faccio incide sulla loro realtà (parliamo di lavoro, scuola, famiglia) e anche che esiste un altro livello che si chiama mesosistema, che media fra il primo e quello più esterno che si chiama esosistema, sul quale ogni persona non può avere un controllo diretto, bensì può esercitare una minima influenza.

Dunque quando parlo di sviluppo umano, e dico che esso comporta un incremento del livello di consapevolezza (anche in termini di collettività), anche il criterio secondo cui faccio le mie scelte e procedo nel mio percorso implica una visione di società, una visione del mondo e una visione del rapporto tra le persone, quindi una visione politica. La definizione della politica è la vita del cittadino, la vita pubblica del cittadino, la vita di ogni cittadino in relazione agli altri, la scelta di questo cittadino e la sua partecipazione alla presa di decisioni che incidono su di lui e sulla vita delle altre persone che fanno parte della sua comunità. Quindi la sfera del pubblico è nutrita anche dalla sfera del privato. Parlare della dimensione politico-scociale, della dimensione erotico-affettiva (rapporto con se stesso e gli altri) e anche per esempio della dimensione etica o etico-morale, vuol dire parlare della dimensione politica. È importante partire dal fatto che per svilupparsi la persona debba poter soddisfare delle necessità fondamentali, e cioè debba avere salute, sicurezza alimentare, tutto quello che Amartya Sen chiama “libertà strumentali”. La teoria di Amartya Sen dello sviluppo, in cui sviluppo e libertà risultano inseparabili, afferma che noi esseri umani siamo titolari di diritti e siamo teoricamente liberi di fare, ma tante volte non abbiamo la libertà di farlo perché non abbiamo l’opportunità reale. E lui mette sul tavolo una cosa chiamata “libertà strumentali”, che possiamo capire per esempio se parlando di sviluppo umano pensiamo a quei bambini che non hanno dove dormire, che non mangiano o non hanno la possibilità di andare in autobus a scuola ma devono fare 20 km a piedi tutti i giorni: questi bambini non hanno la stessa opportunità biologicamente parlando di arrivare allo stesso livello di sviluppo di altre persone che hanno quelle opportunità, e questa è una scelta politica.

Lo sviluppo umano è anche sociale

GC: Nel libro tutta la riflessione è impostata su una relazione a tre (Santiago la guida, Eliana e Alejandro i due esploratori), sia nel contenuto, sia nella procedura narrativa, sia nella procedura di riflessione, viene fuori che fondamentalmente una scelta in favore dello sviluppo personale non può avvenire se non in considerazione dell’altro e quindi di fatto non è possibile dare luogo al proprio benessere senza considerare quello degli altri, e questo non in termini di interessi economici, bensì in termini di psicologia di comunità e qui la domanda: in “Rutas” c’è un richiamo a una dimensione comunitaria delle relazioni?

RM: L’essere umano ha tante dimensioni, e nell’essere in ciascuna di esse si trova anche in rapporto con le altre, e questo già di fatto implica una dimensione sociale, perché l’altra persona può essere vera o può essere immaginata o può essere un’altra persona che gli ha parlato anni fa, o che gli ha scritto anni fa, o che gli ha regalato qualcosa fatto con le sue mani. Quindi non esiste la possibilità di parlare di sviluppo umano senza mettere in conto l’esistenza degli altri, perché le diverse dimensioni in cui ogni soggetto si trova dipendono dagli altri soggetti. A me piace andare sul concreto, parliamo dello sviluppo di un bambino per esempio: se non trova chi gli possa dare il cibo muore, se non trova chi gli cambi il pannolino si ammala e muore, ma anche se non trova chi lo coccoli muore per una cosa che si chiama “deprivazione affettiva”, quindi questo fatto è una cosa oggettiva di cui abbiamo bisogno, e cioè della presenza fisica dell’altro, e questo solamente nella dimensione biologica.

Anche le altre dimensioni, che presentano più variabili, hanno bisogno dell’altro; la dimensione cognitiva per esempio ha bisogno della realtà per svilupparsi. Diciamo che se una persona non si confronta con gli oggetti non costruisce un pensiero, se una persona non si confronta con gli altri non sviluppa un linguaggio, se una persona non si confronta con gli altri non diventa essere umano, perché non avviene un processo che si chiama socializzazione e nemmeno quello che si chiama individuazione; e quindi se questo non accade una persona non diventa soggetto e se non diventa soggetto non può stabilire rapporti con altri perché non è capace di differenziare se stesso dagli altri. Questa è la dimensione erotico-affettiva. È per questo che il ruolo del facilitatore è prezioso, perché la presenza di un’altra persona determina la possibilità per qualcun altro di avere gli strumenti per compiere il proprio sviluppo. 

È lì che si esprime il senso della nostra presenza, cioè essere strumenti per lo sviluppo degli altri. È qui che anche tutti noi torniamo al nostro vero posto, non siamo più i più importanti, siamo solo un strumento per lo sviluppo degli altri, quando abbiamo scelto il ruolo di educatore e il ruolo di professionisti che lavorano nel sociale, ma anche quando abbiamo scelto il ruolo di genitori.

La dimensione trascendente

LC: Arrivati alla fine della nostra conversazione, vorrei giusto chiedere una chiarificazione su un tema sul quale “Rutas” lascia un po’ di mistero: la relazione che c’è tra la persona, l’altra persona e il loro contesto. Non è solo una relazione orizzontale ma anche una relazione verticale. Quando si parla di quella dimensione che si definisce come trascendente, a cosa ci si riferisce?

RM: La dimensione trascendente parla della consapevolezza di far parte di qualcosa di più complesso di noi. Non si riferisce ad una dimensione spirituale per forza, non è una dimensione religiosa. La scelta della trascendenza può essere per qualcuno una scelta collegata ad una scelta religiosa o a una scelta spirituale, ma non solo. Per esempio i bambini piccoli cominciano a sviluppare questa dimensione quando sono in grado di capire che c’è un rapporto con il seno della mamma e sentono di far parte di una realtà più grande, e quindi che non sono del tutto soli come individui; piano piano il bambino capisce che fa parte di una famiglia e la sua trascendenza si sviluppa nel capire che quello che lui fa, fa parte di una realtà più complessa che non dipende solo da lui ma anche da quella dinamica che si stabilisce all’interno di quella famiglia. Via via il perimetro del luogo che occupa si va ampliando, quindi la persona si rende conto che fa parte di un sistema più complesso. Il sistema, è vero, può essere un qualcosa di spirituale per quelli che credono; ma anche solo il fatto di sentirsi parte del ciclo della vita afferisce alla dimensione trascendente, essere consapevoli che le molecole di cui siamo composti hanno una funzione specifica, e che, in virtù di questo, siamo parte di un pianeta, e che quello che facciamo nel nostro “nido ecologico” ha un’incidenza su quello che accade su tutto l’ecosistema. Questa è trascendenza e questo può suscitare un po’ di timore, perciò quando ho cominciato a scrivere ho sempre avuto il dubbio se trattare o no questa dimensione, però non si può parlare di sviluppo umano lasciando fuori la consapevolezza di far parte di una realtà più complessa. Questo lo dico perché un’altra cosa che ho scoperto nella mia ricerca è che questo senso di trascendenza fa la differenza tra una persona che transita nel suo percorso di sviluppo in un modo consapevole e una poco consapevole. Per esempio, in Colombia molti ragazzi finiscono le superiori e non hanno nulla da fare, sanno che non hanno nient’altro, sanno che non troveranno un lavoro, allora non hanno più voglia di studiare, non hanno voglia di finire le superiori perché non sanno quale sia il senso di farle, non ci trovano un senso. Nei luoghi dove abbiamo introdotto questo modello abbiamo lavorato su questa consapevolezza, tra altri fattori questo è stato molto importante perché loro così capiscono che quello che fanno viene influenzato da quelle cose che si trovano attorno e anche che loro influenzano il comportamento degli altri, trovando così un senso a quello che fanno; è questo senso di fare parte di una cosa più grande di loro che li spinge a scegliere di andare avanti e non lasciare la scuola. Questo forse è un esempio un po’ banale per la vostra realtà, ma nella realtà nostra significa che i ragazzi decidono di smettere di consumare droghe perché vanno a scuola, significa che le ragazze evitano di rimanere incinte molto presto perché sanno che hanno altre opzioni rispetto a quelle che la realtà più vicina a loro offre. Quindi per me quello è il senso vero della dimensione trascendente.

Altra cosa è la scelta personale di come si vive la propria trascendenza; ma che tutta la gente abbia la consapevolezza di far parte di una cosa più complessa all’interno della quale può trovare anche altre opportunità fa la differenza nella vita di ogni singola persona.

Fernand Deligny, “I vagabondi efficaci e altri scritti”, a cura di Luigi Monti e Chiara Scorzoni (Edizioni dell’Asino, 2020)

Incontro con Luigi Monti e Federica Lucchesini
Pistoia, Biblioteca San Giorgio, 19 giugno 2021

Federica Lucchesini è insegnante della scuola secondaria di primo grado e redattrice della rivista “Gli asini”; Luigi Monti, redattore de “Gli asini” e insegnante di italiano nella scuola per stranieri “Frisoun” del comune di Nonantola (MO), ha curato questa nuova edizione de “I vagabondi efficaci”, che esce con la traduzione di Chiara Scorzoni.

Luigi Monti: Ringrazio per l’invito il Centro di Documentazione, che è un’istituzione per chi come me e Federica Lucchesini ha frequentato il mondo delle riviste. Il libro di cui parliamo oggi ha avuto una gestazione lunga. Deligny era un gigante della pedagogia (anche se lui non si sarebbe mai definito un pedagogista) e il suo lavoro mancava in Italia dagli anni del movimento, durante il quale si è creato un piccolo pubblico di affezionati. Da allora è calato un silenzio abbastanza incredibile sulle sue idee: abbastanza incredibile che non si faccia mai riferimento a Deligny nei manuali di pedagogia.

Mi sono concentrato su quello che ha fatto come educatore piuttosto che su quello che ha detto. Ho cercato di marcare i circa 60 anni di attività di Deligny in cinque tappe o “tentativi”, come li chiamerebbe lui. Deligny, che nasce nel 1913, inizia a lavorare come educatore nel 1938 e muore ancora in attività nel 1996. Se uno dovesse immaginarsi un “dizionario Deligny”, tentativo sarebbe uno dei primi lemmi. Tentativo (pedagogico, potremmo aggiungere noi) è il termine con cui definisce ogni sua iniziativa, ogni suo nuovo progetto per sottolinearne la dimensione sperimentale, occasionale e in qualche modo effimera. Secondo lui i tentativi educativi dovevano rimanere effimeri e quindi esposti al fallimento se puntavano a rimanere vivi.

Ma chi sono i vagabondi del titolo che abbiamo voluto dare all’antologia? Chi sono i bambini difficili con cui lavorava e per i quali è diventato, in Francia, l’educatore più famoso? Nella sua prima parte della vita professionale, dal 1938 al 1968, l’elenco delle possibili definizioni dei ragazzini difficili è lunghissimo. Deligny stesso sembra un po’ giocare con questi elenchi e sovrappone categorie che sono al tempo stesso mediche, giuridiche, psicologiche, gergali (alcune ne inventa lui) o definizioni da mass media. Parla di caratteriali, ragazzini in pericolo morale, disadattati, deficienti intellettivi, anormali, vagabondi, epilettici, piromani, violentatori, canaglie, che covano ingratitudine, pubblicassistènziano (questo è uno dei suoi neologismi), che si masturbano l’esistenza, recidivi, disadattati sociali, alcolisti ereditari, e l’elenco sarebbe ancora lungo. Potremmo aggiungere le categorie di oggi come iperattivi, a rischio devianza eccetera.

In un’epoca in cui i saperi e i confini pedagogici sconfinano sempre di più in un sapere che fino ad allora era stato prevalentemente dei tribunali e della giustizia minorile è chiaro che le categorie esplodono e si moltiplicano. Una delle caratteristiche che contraddistinguerà tutta l’opera di Deligny è il fatto di trovarsi a suo agio in questa vaghezza e in questa indeterminatezza epistemologica. Il fatto di non poterli definire con eccessiva precisione lo metteva a suo agio. Se nella prima parte della vita, in questi primi trent’anni, l’elenco delle definizioni di vagabondi è lunghissimo, nella seconda, che coincide con il suo ultimo tentativo che durerà trent’anni passati sui monti delle Cévennes, la risposta alla domanda chi erano i bambini difficili è una sola, cioè i bambini che non parlano, i bambini che non hanno l’uso della parola: non perché non fossero costituzionalmente capaci di parlare, ma perché la loro struttura mentale, psicologica non faceva riferimento al linguaggio.

Nel 1938, Deligny ha 25 anni e frequenta alcuni anni di università non troppo convinto (psicologia e filosofia a Lille). In questo periodo pensa di scrivere, di fare il giornalista. Riceve una proposta di lavoro dal padre di un compagno che era istruttore scolastico al Ministero dell’istruzione e così, più per caso che per vocazione, e questo credo che sia un dato da non sottovalutare, si ritrova a fare l’educatore. Non smetterà più di farlo e lo fa nelle classi di perfezionamento di due scuole elementari di Parigi. Classi speciali all’interno di scuole normali, quelle che da noi in quegli anni venivano definite classi differenziali. Classi destinate a quei bambini che allora venivano definiti deficienti intellettivi o anormali pedagogici con l’idea di definire con queste categorie bambini che potessero essere trattati sul piano educativo, recuperabili per via educativa, contrapposti a un’altra categoria di bambini, gli anormali da manicomio che erano considerati trattabili solo attraverso strutture chiuse di tipo sanitario-manicomiale che Deligny conoscerà poco più avanti.

È in questo contesto, nelle classi di perfezionamento, che nasce l’attrazione per quella che lui definirà «la misteriosa lordura sociale» dell’infanzia disadattata, e che rappresenterà l’attrazione che porterà avanti per tutta la sua vita di educatore.

Deligny inizia a fare scuola sperimentando i metodi dell’educazione attiva che proprio in quel periodo stavano trovando un proprio statuto pedagogico: disegni, uscite, laboratori manuali, laboratori teatrali, giornalini scolastici, tipografie. Siamo nel 1938, sono passati circa dieci anni dalla nascita della Cel, la cooperativa dell’insegnamento laico. L’organizzazione di insegnanti, perlopiù maestri elementari che avevano ideato e sperimentato i metodi dell’educazione attiva, sotto la spinta e il carisma di Celestin Freinet, si ritroveranno intorno alla cooperativa della tipografia-scuola che poi diventerà MCE. Sono passati solo due anni dalla nascita dei CEMEA, centri di esercitazione ai metodi dell’educazione attiva, l’organizzazione di educatori che, grazie alle conquiste del fronte popolare, avevano adattato i metodi dell’educazione attiva, incrociandoli con lo scoutismo, ai contesti extrascolastici. Vi ho dato queste brevi coordinate per farvi capire il terreno di cultura in cui si muove Deligny e di cui egli fa parte. Tuttavia la posizione che manterrà Deligny rispetto al movimento dell’educazione attiva, così come rispetto al movimento della psichiatria critica o dell’antipsichiatria è una posizione defilata e critica. Parecchi anni più tardi, riferendosi a questo periodo dice: «Mi trovavo ad avere a che fare con ragazzi anormali esperti in modi di fare e di essere che sorprendevano il ragazzo che ero». Uso questa citazione per spiegare perché l’uso che Deligny fa e farà dei metodi attivi è fin da subito eretico.

Ciò che lo attrae delle forme di vita dei bambini anormali è l’incertezza della loro identità, l’inafferrabilità della loro struttura caratteriale. Non tanto il loro diritto all’istruzione o all’educazione: non c’è nessuno slancio filantropico o rieducativo in Deligny. Già a partire da questa fase della sua vita (lo sarà ancora di più e risulterà più eclatante quando lavorerà con i ragazzini mutatici) l’attrazione per la misteriosa lordura dell’infanzia disadattata non può essere ripagata come invece era per molti maestri della cooperazione educativa, dal desiderio di rinnovamento democratico dell’istituzione scolastica o sanitaria educativa in cui erano inseriti. Deligny pensava al bambino, si rispecchiava nella diversità del bambino. Gli interessava solo in secondo piano l’organizzazione della struttura in cui vivevano.

Il secondo tentativo pedagogico sarà l’incontro con l’ospedale psichiatrico di Armantières, vicino a Lille, a pochi chilometri da Dunkirk, nel 1943. L’ospedale contava 11 padiglioni, 2500 malati, circa 500 tra medici e infermieri, una cappella, un obitorio, una fattoria e una birreria. Deligny vi prende servizio nel 1939 come istitutore. Nel 1943 ci torna come responsabile del padiglione numero 3. Scrive una raccolta, “Padiglione numero 3” (che non abbiamo inserito in questa antologia) in cui racconta brevi biografie o subito prima o subito dopo l’internamento al padiglione. Chi sono i bambini internati al padiglione? Disturbi psicotici, marginalità sociale e handicap: tutto mescolato insieme e tutto curato con la violenza dell’internamento. Che cosa fossero i manicomi allora non c’è bisogno di dirlo. Non ci sono grosse testimonianze visive del manicomio di Armentières: in Italia, un fotografo che si chiama Mauro Vallinotto fotografò nel 1970 il manicomio di Grugliasco, il manicomio dei bambini chiamato “Villa Azzurra”. Dopo la pubblicazione di quelle foto il manicomio dei bambini fu chiuso.

Deligny usa e sperimenta i metodi dell’educazione attiva. Lo fa in un contesto estremo, perché è un manicomio, perché c’è la guerra. Ma in qualche modo queste circostanze gli permetteranno di fare delle cose che altrimenti non avrebbe potuto fare. Approfitta della confusione portata dalla guerra. Sopprime le punizioni e introduce la figura del guardiano educatore. Si avvale non di educatori professionisti nella convinzione che le capacità manuali, la resistenza fisica e un’estrazione sociale più vicina a quella dei bambini internati fossero in qualche modo più efficaci dei saperi tecnici della nascente professionalizzazione del lavoro educativo. Organizza delle uscite, sedute sportive, sfrutta tutti gli spazi non istituiti del manicomio come le cantine e i depositi. Nel 1941 c’è un bombardamento che abbatte un’ala del manicomio di Armentières, lui sfrutta questo padiglione bombardato sia come spazio in cui fare delle cose ma anche, ad esempio, recuperando i telai delle finestre per organizzare dei laboratori di tessitura, di ricamo. Si fa dare dalle mogli dei guardiani fili di colore e sfrutta le circostanze. Questo sfruttare le circostanze sarà un tratto caratteristico come l’uso degli ambienti, l’uso degli spazi non istituiti. Quello che succede ad Armentières, complice questo stato di confusione determinato dalla guerra, è che i suoi metodi e l’organizzazione del reparto in qualche modo hanno successo. Il reparto marcia bene, fila bene, senza grossi problemi di insubordinazioni, di violenze, problemi di gestione che nei manicomi erano all’ordine del giorno. Deligny sarà anche molto autocritico nei confronti di questo reparto che marcia bene, perché si rende conto che questo successo può significare anche ammaliare i ragazzini, in qualche modo omologarli, renderli controllabili, renderli educabili. Nei “Vagabondi efficaci” scriverà che ad Armentières li faceva filare bene come delle SS. Una volta usciti dal manicomio si ritrovavano arruolati nelle SS. Questo successo fa di lui, malgrado le sue stesse intenzioni, un esperto dell’infanzia in pericolo morale e viene invitato per questo a far parte di un consiglio tecnico per la prevenzione della delinquenza minorile del governo collaborazionista di Vichy. Siamo nel 1945 e anche questa è una cosa un po’ strana. Un personaggio come lui, che non nascondeva le sue simpatie comuniste, viene stipendiato dal governo collaborazionista di Vichy e gli viene affidato il ruolo sia di consigliere tecnico ma poi anche di responsabile pedagogico di una struttura per minori. Deligny ha portato avanti il rapporto con le istituzioni con cui lavorava persino all’interno di un regime filofascista come quello di Vichy.

Il terzo tentativo è dato da questa circostanza ed è il Cot di Lille. Il Consiglio tecnico per la prevenzione della delinquenza minorile si era dato un obiettivo dal punto di vista della gestione delle politiche educative, cioè quello di dividere il territorio francese in regioni, in unità amministrative e affidare la gestione di un Cot. Che cos’era il Cot? Nel film “I quattrocento colpi” di Truffaut, il protagonista dodicenne Antoine Doinel, e il suo migliore amico, vengono acciuffati mentre tentano di rubare una macchina da scrivere dall’ufficio del padre di Doinel e finiscono in riformatorio. In attesa della sentenza definitiva il giudice propone alla madre di Antoine di internarlo in un centro di osservazione. Il Cot di Lille somiglia molto, anche dal punto di vista architettonico, a quello che compare nel film di Truffaut. La somiglianza non è casuale: Deligny e Truffaut si conosceranno proprio in questo periodo, intorno al 1946, instaurando un rapporto di profonda amicizia e stima tanto che poi Truffaut chiederà consiglio a Deligny per i suoi film che hanno per protagonisti ragazzini ineducabili come “I quattrocento colpi” e “Il ragazzo selvaggio”. Il finale de “I quattrocento colpi”, il piano sequenza nel quale Antoine fugge dal centro di osservazione e corre verso il mare, pare che gli sia stato suggerito da Deligny, memore delle fughe dei suoi ragazzini, cui lui stesso aveva assistito quando era ad Armentières. Che cosa chiedono a Deligny i responsabili del Cot? Alcune settimane di osservazione, dei test psicologici come quello che viene mostrato ne “I quattrocento colpi”, l’inquadratura fissa sul ragazzino e la voce fuori campo della psicologa che gli somministra un test e le espressioni ma anche le risposte che da Antoine Doinel sono strepitose, sempre sul filo tra il dramma e l’ironia. La somministrazione di test psicologici doveva servire a capire a quali strutture reindirizzare i ragazzini. Quali strutture sono più idonee per un loro raddrizzamento morale: strutture sanitarie, giudiziarie, educative, manicomiali. Questa è la richiesta che viene fatta a Deligny, il quale, piuttosto, cerca di sforzarsi di intuire desideri e inclinazioni dei ragazzini e di provare a liberarne l’immaginario, ri-orientandoli semmai verso un collocamento professionale o formativo. Vi leggo questa citazione, secondo me molto bella, che spiega le intenzioni che lo muovono in quegli anni. «Per noi, prendere in carico un ragazzino non significa cavare d’impaccio la società, cancellarlo, riassorbirlo, addomesticarlo. Significa innanzitutto rivelarlo, come si dice in fotografia. Tanto peggio, in un primo tempo per i portafogli in circolazione, le orecchie abituate alle moine salottiere, i vetri fragili e costosi».

Questa idea di rivelare agli occhi degli operatori ma anche agli occhi di se stesso i ragazzini che aveva in carico è un’immagine molto efficace. Rivelare in fotografia era proprio quella operazione per cui si entrava in camera oscura e con i prodotti chimici lentamente la fotografia prendeva corpo. Lui cerca questa immagine per dire è questo il lavoro che dovrebbe fare un educatore che lavora con questo tipo di ragazzini ma credo che questo valga per qualsiasi lavoro educativo. Parlavamo di tentativi, di dimensione effimera dei suoi esperimenti educativi. Anche questo al Cot di Lille durerà soltanto un anno e mezzo, finché non scoppia il primo caso Deligny. In questo momento in cui i suoi rapporti con le istituzioni iniziano a incrinarsi, i suoi metodi e le sue pratiche non tardano ad attirargli l’ostilità delle autorità amministrative e giudiziarie con cui lavorava. I motivi di attrito erano tre: il primo era la critica che lui portava avanti, molto ironica ma anche sferzante contro l’atteggiamento estremamente paternalistico e moralista con cui venivano impostati e coordinati questi luoghi, il modo in cui sceglieva i suoi collaboratori, il fatto di avvalersi di personale non professionista, formalmente l’accusa che gli viene fatta per chiudere il Cot e che si era avvalso di personale moralmente ambiguo, quindi persone con la fedina penale sporca. Il terzo motivo di incompatibilità, una cosa su cui lui insisteva molto, era l’annullamento della distinzione che c’era — e che c’è molto ancora oggi — tra figure di coordinamento e figure educative. Lui diceva che chi coordina non può non essere anche educatore e viceversa, gli educatori devono avere lo sguardo complessivo su quello che vanno facendo. Il Cot chiude abbastanza bruscamente, dopo un anno e mezzo. Il titolo della cronaca del suo soggiorno al centro di osservazione (“I vagabondi efficaci”, titolo che abbiamo voluto mantenere anche per l’antologia de Gli Asini — lo abbiamo voluto mantenere perché lo trovo bellissimo), è un piccolo manifesto pedagogico di per sé e segna la profonda incompatibilità — all’interno della quale lui comunque riuscirà a muoversi con grandissima libertà — tra la funzione di normalizzazione e di controllo che le istituzioni richiedono, e il suo piano di ricerca e rivolta. Il problema, prima ancora pedagogico che politico, non è tanto quello di normalizzare dei disadattati, ma di rendere efficace il loro disadattamento, cioè di creare le condizioni perché l’inefficacia, molte volte alienante, manipolabile, in alcuni casi anche autolesionista dei ragazzini possa trasformarsi in pulsione vitale, in autodeterminazione, in spinta creativa. Uno dei passaggi più efficaci de “I vagabondi” è: «Ogni sforzo educativo non sostenuto da una ricerca e da una rivolta, puzza troppo rapidamente di biancheria per imbecilli». L’intervento educativo non può non essere accompagnato da un piano di ricerca e di rivolta. Le parti più belle del libro, che è composto sia di pagine teoriche che di parti descrittive, rimangono i bozzetti di una pagina o di poche righe, in cui Deligny dipinge con pennellate rapidissime non tanto i tratti caratteriali dei ragazzini (non c’è mai una descrizione sui tratti delle personalità dei ragazzini), quanto la descrizione della frizione che si genera tra i comportamenti dei ragazzini e il contesto che hanno intorno. Aiutarli, non amarli è il condensato della prospettiva pedagogica di Deligny, perché «la truffa sentimentale è, ai nostri occhi, il colera delle imprese educative». Cosa vuol dire aiutarli, non amarli? Per Deligny significa liberarli da un destino già scritto, e questa liberazione è possibile a condizione che sia già avvenuta nello sguardo di chi li osserva e quindi in primis degli educatori o di chi vive di fianco a loro. “Seme di canaglia”, raccolta di aforismi, ha questa struttura formale che si porterà dietro quasi sempre. Anche nelle cose più complesse, più articolate che ha scritto, lui aveva questo modo di tratteggiare con pennellate rapidissime la situazione o il ragazzino che in qualche modo voleva descrivere. “Seme di canaglia” è forse il libro che in patria l’ha reso più famoso.

Siamo alla fine del 1946, Deligny lascia Lille ma non prima di aver trovato una sistemazione per i ragazzini rimasti a vivere al centro di osservazione al momento della sua improvvisa chiusura. Al Cot, nel momento di massima accoglienza ci saranno tra gli 80 e i 100 ragazzini. Quando se ne va lui forse qualcuno di meno, però c’era il problema di che fine facessero: quattro anormali (come li chiama lui) vanno a vivere nella soffitta di casa sua, dieci si accampano per alcune settimane con gli educatori del Cot, una ventina si sistema e i più duri si fanno assumere nei cantieri per la ricostruzione. Dovete immaginare un’Europa appena uscita dalla guerra, i cantieri erano tantissimi, non si facevano troppi scrupoli e forse è stato utile anche per i ragazzini che ci si avvalesse di manodopera “minorile” per i cantieri.

L’idea del suo quarto tentativo, che lui chiamerà la Grande Cordata, nasce da questa circostanza. La definizione che darà di educatore è creatore di circostanze. Lui dirà di non avere metodi ma prese di posizione. Queste prese di posizione, per evitare che diventino ideologiche, quindi che gli impediscano di vedere chi ha di fronte, devono avere come contraltare le circostanze, cioè quella presa di posizione deve fare i conti con ciò che ha intorno, gli spazi, gli ambienti, i collaboratori. La circostanza che lo porta a fare questa scelta è questa: non ha più una sede, non ha un luogo fisico, da quando opera per la prima volta non c’è una struttura. L’idea della Grande Cordata, e quindi della creazione di una rete per «la presa in carico in cura libera», dirà lui, nasce da questa situazione. Niente letto, niente istituto né focolare e una rete di soggiorni di prova attraverso tutta la Francia, con il sostegno clinico e organizzativo di Henri Wallon, che a noi non dice molto ma che diventerà il più importante psicologo infantile in Francia. Avrà la cattedra al College de France, ma nonostante l’altezza intellettuale sarà anche presidente per tanti anni dei CEMEA, con una collaborazione tra mondo intellettuale e mondo degli educatori che a noi oggi sembra impensabile: Guattari, Deleuze, Wallon, Oury ma anche Truffaut, Chris Marker. L’idea che la pedagogia potesse dialogare con le forme di cultura più alte di quel tempo a noi oggi sembra marziana. Fatto sta che con il sostegno clinico e organizzativo di Wallon, Deligny inventa questo organismo sperimentale della Grande Cordata in rapporto con un’istituzione, l’Ufficio pubblico d’igiene sociale, probabilmente di qualche ministero (non so se dell’interno o altro), che gli domanda di occuparsi dei giovani incollocabili, con i quali la psicoterapia si era rivelata inefficace. L’idea è semplice: brevi cicli di osservazione in un soggiorno di prova centrale e viaggi di formazione in giro per la Francia appoggiandosi alla rete di ostelli della gioventù o alle famiglie affidatarie.

La rete degli ostelli della gioventù è stata un’esperienza bellissima nella prima metà del Novecento, e sopratutto dopo la seconda guerra mondiale è stata una rete che non dava solo ospitalità, ma che rappresentava anche un movimento culturale a tutti gli effetti, nato dall’idea di fare qualcosa delle scuole nei periodi estivi (perché lasciare vuote queste strutture sui territori per tre-quattro mesi?). Da lì l’idea di far viaggiare i giovani a prezzi stracciati, talvolta quasi gratuitamente, e poter avere dei punti di appoggio per tutto il paese. Deligny si appoggia a queste strutture, ma con i viaggi non intende generare della vocazione al lavoro, quanto piuttosto suscitare nuovi avvenimenti, mescolando le carte nella vita bloccata dei ragazzini che ha in custodia. Vi leggo una lunga citazione di Jean Oury, che intorno al 2000, in un convegno, ricordava in questi termini la Grande Cordata: «Deligny aveva una scatola con delle schede di nomi di persone che aveva conosciuto negli ostelli, nei pensionati dei lavoratori; riceveva adolescenti un po’ delinquenti, di sedici o diciassette anni, un po’ perduti e diceva loro “Bene, cosa vuoi fare?” Allora uno diceva: “Io voglio essere aviatore” e lo mandava da uno dei suoi amici che era meccanico in un aeroporto a Orly. La consegna era di accogliere l’adolescente senza modificare nulla delle sue abitudini, nulla di sé, del suo modo di essere e di vivere. In otto giorni, il ragazzo si era stancato di guardare, tornava dicendo “Non voglio più essere aviatore”. “Bene, gli diceva Deligny, allora che cosa vuoi fare?” “Non so, occuparmi delle mucche”. Allora prendeva un’altra scheda e lo mandava in una fattoria. Ma questo era dispendioso, ed entro un certo tempo, la previdenza sociale si è rifiutata di pagare. Era quasi previsto. Mi sembra proprio che Deligny dicesse all’epoca che un’esperienza non potesse durare più di due anni».

Dopo poco più di dieci anni, e dopo aver fatto viaggiare per la Francia circa 150 ragazzini intrattabili, il tentativo della Grande Cordata esaurisce gradualmente la sua spinta, sia per le difficoltà economiche (ovviamente questa architettura aveva un certo costo, e ci fu anche qui, come nel caso del Cot, un inghippo burocratico, che l’amministrazione usò come scusa per interrompere il flusso dei finanziamenti: loro dicevano “se questi vanno a lavorare perché dovremmo pagare delle rette ulteriori per mantenerli?). Fatto sta che, per questa ragione, ma anche per la distanza che si viene lentamente a creare con il Partito comunista che lo aveva supportato (e probabilmente finanziato) fino ad allora, la Grande Cordata lentamente si esaurisce. Questo del rapporto tra Deligny e il PCF sarebbe un altro argomento interessante di cui discutere: ho cercato di farlo un po’ nel libro, nell’introduzione, ma dà molto bene l’idea del rapporto anche obiettivamente contraddittorio che Deligny instaurava con le istituzioni con cui collaborava. Questa distanza sostanzialmente si crea in ragione del fatto che il Partito comunista vedeva in Deligny una sorta di Makarenko francese. Makarenko era un educatore russo che aveva lavorato nella prima metà del Novecento in una Russia devastata prima dalla carestia, poi dalla rivoluzione, poi dalla Prima guerra mondiale, piena di quelli che in russo venivano chiamati besprizornye, cioè “ragazzi randagi”, ragazzi di strada. Una dimensione che noi non riusciamo neanche a immaginare: si parlava di milioni di ragazzini. Il partito comunista vedeva Deligny un po’ come il Makarenko francese, con la grossa differenza che Makarenko lavorava nell’ottica di sottrarre i ragazzini dalla strada, dare loro quello che la società borghese aveva negato e formarli per farli diventare l’uomo nuovo, l’uomo che avrebbe portato a compimento la rivoluzione. Questo Deligny l’ha sempre rifiutato, l’ha sempre negato in qualche modo. Diceva: non sono mai stato abile a modellare dei caratteri. Quindi la sua idea non è quella di lavorare con un ragazzino oggi pensando alla società del futuro. Questa grossa distanza, in ragione anche del fatto che Deligny in questo periodo — siamo a metà degli anni Sessanta — inizia a porsi, grazie ad alcuni incontri e circostanze particolari, il problema del linguaggio dei ragazzini che non parlano. Questa distanza tra lui e il Partito comunista fa chiudere l’esperienza della Grande Cordata.

Nel 1965 Deligny e i suoi collaboratori accettano l’invito di Jean Oury a collaborare alle iniziative della clinica di La Borde. A La Borde Deligny scrive sceneggiature, che diventano improvvisazioni teatrali, giochi con i pazienti, crea dei cineclub, proietta film militanti nei caffè. Gli vengono affidati i pazienti più complicati e rimane lì per un paio d’anni: non vivrà mai alla clinica, ma a pochi chilometri di distanza. Questa è l’immagine che cercavo di dare di una posizione defilata rispetto ai movimenti di cui faceva parte: defilato rispetto all’educazione attiva, rispetto al giro di La Borde, così come defilato sarà anche alle Cévennes.

Nel 1967 l’incontro con Jean-Marie, “Janmari”, un dodicenne dall’autismo quasi puro, futuro protagonista di uno dei film di Deligny, “Ce gamin là”; lo convince ad accettare l’invito di Félix Guattari a trasferirsi sui monti delle Cévennes per iniziare un nuovo tentativo. Arriviamo così al quinto tentativo, quello che poi porterà avanti per tutta la vita, fino alla morte, con i bambini psicotici, le cui capacità comunicative sono fortemente compromesse o sono nulle. L’antologia non arriva a parlare di questo periodo (abbiamo deciso di fermarci appena prima, per ragioni di spazio ma anche perché sarebbe bello poter proseguire il lavoro di traduzione con una seconda antologia che racconti questi anni). Nelle Cévennes fa il contrario di quello che tentò di fare il dottor Itard nell’Ottocento incontrando Victor, il selvaggio dell’Aveyron. Qualcuno avrà visto il film di Truffaut “Il ragazzo selvaggio”, oppure conosce la storia del dottor Itard, fondamentale per la psicopedagogia non solo francese. Egli cercò di educare al linguaggio un ragazzino, Victor, che non ne voleva sapere di parlare. Ci sono scene bellissime nel film in cui si assiste a un duello vero e proprio (che non arriverà mai alle mani come accade in un altro film bellissimo che è “Anna dei miracoli”: qui ci sono dei corpo a corpo generati da questo tentativo di arrivare al linguaggio). Deligny fa l’esatto opposto, dice: «Bisogna accettare di lasciarli vivere nell’assenza di linguaggio, senza verbalizzare, il che sarebbe già interpretare, già curare. Accettare di non rieducare alla parola, che sarebbe già farli rientrare, per buona coscienza, nella nostra norma». Senza nessun appoggio istituzionale. Comincia con le classi differenziali, poi il manicomio, il Cot di Lille, la Grande Cordata, e arriva in questa sequenza di tentativi, sui monti delle Cévennes dove non c’è nessun appoggio istituzionale. I ragazzini vengono inviati da alcuni clinici fidati, amici di Deligny, tra cui Maud Mannoni e Françoise Dolto, che sono due giganti della psicologia infantile — queste per fortuna tradotte in italiano, anche se non tantissimo, e studiate nelle nostre università. Nelle Cévennes Deligny crea quelle che lui chiama «presenze vicine», cioè operai, contadini, braccianti disoccupati, ma anche tanti studenti universitari (siamo nel 1968, quindi c’è un po’ di tutto nelle Cévennes), regolate da un’economia di sussistenza di tipo agricolo e artigianale, e da questo bisogno imperioso di immutevole che definisce l’autismo. La rete delle Cévennes, o una «zattera sui monti», come la chiamerà lui. La dovete immaginare come una rete di cinque o sei fattorie, distanti tra i 5 e i 20 chilometri l’una dalle altre, dove i ragazzini autistici avevano grande libertà di muoversi tra l’una e l’altra, e dove Deligny inventa alcune pratiche di intervento come le «ligne d’erre», linee-traccia, cioè delle mappe (a proposito del lavoro sugli spazi) che lui e i suoi collaboratori disegnano. Apparentemente non fanno nient’altro che osservare questi ragazzini, e a fine giornata ne disegnano gli spostamenti in queste mappe che non vogliono interpretare, non vogliono rieducare, ma che in qualche modo rappresentano l’unico filtro comunicativo tra chi ha la parola e chi non ce l’ha. La ricerca sul linguaggio si fa sempre più serrata, non a caso nutrendosi dell’esperienza quotidiana di bambini che non possono fare affidamento sulla struttura psicologica e cognitiva della parola: una ricerca che trasforma gli ultimi scritti di Deligny in veri e propri dispositivi documentari (è molto bello vederli, anche nell’edizione delle opere fatta in Francia, perché sono testi pieni di mappe, di tracciati, di incisioni, di fotografie, di didascalie). Non a caso è soprattutto ai film che Deligny affiderà il compito di raccontare l’esperienza di ragazzini che si muovono in un’area completamente esterna al linguaggio.

Il limite cronologico dell’antologia che abbiamo messo insieme io e Chiara Scorzoni copre solo metà della vita professionale di Deligny, si ferma appena prima del tentativo con i ragazzini autistici, e per questo motivo potrebbe anche rafforzare un malinteso che ha accompagnato Deligny fin da quando era in vita: cioè che esista un Deligny “politico”, militante nella difesa dell’infanzia disadattata, prima, e poi un Deligny “speculativo”, poeta dell’autismo, che proprio quando il Maggio inizia a montare per le strade di Parigi si rifugia tra i monti delle Cévennes, al riparo delle lotte politiche e istituzionali. Io sono convinto del contrario: sono convinto che con delinquenti o autistici prima o dopo il Sessantotto non faceva differenza per Deligny: si è sempre trattato di evitare che i ragazzini finissero in prigione o in manicomio; di adottare il loro punto di vista piuttosto che quello delle pedagogie o delle terapie (anche progressiste) che si sforzavano di formarli o che pretendevano di educarli; di farsi guidare dall’invenzione e dalla sperimentazione piuttosto che dalla compassione filantropica. Questo della sperimentazione è uno dei suoi tratti caratteristici, ma penso che dovrebbe anche essere uno dei tratti caratteristici di chi fa il nostro lavoro oggi, che sia educatore o insegnante.

Federica Lucchesini: Il contributo che posso dare io è di uso, di una persona che è dentro la scuola e che si trova in mano questo libro finalmente tradotto e lo utilizza. Cosa possiamo trovarci dentro? Mi soffermerò in particolare sulle prime pagine dell’antologia, che sono quelle che raccolgono “Seme di canaglia”. Quando rifletto sul fatto che Deligny è mancato nel panorama italiano mi sorprendo perché da molti anni, per varie strade, mi è capitato di formarmi nei movimenti pedagogici francesi dove questa figura di educatore è capillare. La sua figura è forse così assimilata storicamente che ci sono dei modi di dire o dei riferimenti a Deligny che non sono nemmeno più riconosciuti. C’è stata una stagione che può sembrare lontanissima nella quale la lettura condivisa e ripetuta di questo libro ha formato moltissimi educatori, educatrici, attivisti e attiviste nel campo della pedagogia. Tanto è vero che “Seme di canaglia” era chiamato il libretto rosso dell’educazione nuova, utilizzato nei CEMEA, luoghi di formazione in cui ci si rifaceva a Freinet, all’educazione attiva.

La vita di Deligny è stata una vita ricca di scambi, se ha sempre lavorato a contatto con bambini e bambine, ragazzini e ragazzine, è sempre stato a contatto con tantissimi personaggi fondamentali di una certa stagione della riflessione pedagogica e dell’educazione vista come pratica politica in Francia. Penso in particolare a Fernand Oury, della pedagogia istituzionale, a Françoise Dolto, a Maud Mannoni. La clinica di La Borde e Jean Oury (fratello di Fernand) ha mosso dei cambiamenti paragonabili a quelli che sono avvenuti qui da noi grazie a Basaglia. È un filo di scambio che ha sempre avuto. Ha soggiornato presso la clinica di La Borde e il tentativo nelle Cévennes è indirizzato da Félix Guattari, l’autore insieme a Deleuze di “Mille piani”. Questo era il tessuto culturale in cui si muoveva. In Francia è una figura enormemente più presente che da noi.

Perché un libretto rosso? Cosa è questo libretto che è stato così fondamentale e che ognuno di noi che lavora nel campo educativo o dentro un’istituzione educativa, scolastica o meno, può usare, leggere, rileggere, condividere con altri trovando perfettamente dei mezzi, anche oggi? Si tratta di una raccolta di 132 parabole, aforismi, storielle, sciarade: sono frasi semplici, ritratti, massime. Alcune volte trovi un filo tematico che scorre, scatta; ci sono degli interi blocchetti che parlano del mestiere di educatore in modo impressionista. A modo suo, lui poi negherà che siano così letterari, così scritti bene, quando invece vedremo che la riflessione sul linguaggio e sulla comunicazione è al centro del suo lavoro.

Proprio all’inizio dei “Vagabondi efficaci” descrive così “Seme di canaglia”, parlandone molto tempo dopo: «un quadernetto di appunti che raccontasse come l’esperienza maltratti o sostenga la fragile flottiglia, alcuni la vorrebbero tutta di carta plissettata, ornata di utopia dei princìpi dell’educazione attiva». Quindi una fragile flottiglia di carta che non è ben piegata, che non è ornata, che è fragile perché viene continuamente sommersa e ti mette di fronte continuamente al fallimento, ma che ti sostiene nello smettere di non provare mai di fronte alle contraddizioni, ai paradossi, ai fallimenti, una lotta completamente impari; provare a gestire il lavoro educativo, con tutta la parte di violenza, di lotta, di sporco potere, di confronto col mondo di contraddizione in cui ti impegna; provare a gestirlo secondo alcuni princìpi su cui ti confronti e ti rafforzi in un lavoro con le altre e gli altri che sono dalla stessa parte della barricata con te.
Cosa hanno trovato dentro “Seme di canaglia” quelli del CEMEA, quelli che seguivano Freinet e l’educazione nuova? Hanno trovato delle massime fondamentali: ne leggo solo due. La 46: «Sii presente sopratutto quando non ci sei», e la 57: «Stai attento: chi si mostra è perché ha voglia di farsi vedere, dunque di nascondersi». Chi ha letto Freinet, chi prova a organizzare in maniera cooperativa una classe di scuola o un qualsiasi centro educativo, è in grado di cogliere in queste brevi frasi una miniera di senso. Si tratta di paradossi, di contraddizioni che andando a rileggere forniscono degli strumenti e dei moniti che è possibile riferire a circostanze precise del lavoro educativo. Nell’aforisma numero 82 scrive: «Falli cantare, ridere, danzare; falli correre, sudare, saltare. Il resto è questione di prudenza e organizzazione». Conosciamo la fatica che ci vuole e quanto non si possa fare da soli, quanto ci sia bisogno degli altri. A un certo punto può anche darsi che le cose vadano bene anche se tu non sei lì. È altrettanto vero che se a un certo punto l’organizzazione macina talmente bene che tutto fila completamente liscio, non è più la normalizzazione in cui si riesce ad ascoltare se stessi, ad avere delle pratiche istituenti, ma il momento in cui tornano delle piccole forme di oppressione e di dominio a cui siamo sempre pronti. Il fatto di essere costantemente in fallimento e in scacco, di constatare che ogni volta potevi fare altrimenti, allo stesso tempo è la salvezza dal tuo narcisismo, dall’imporre il tuo modello, dal ricacciarti indietro dalle volontà manipolatorie, ma anche dalla convinzione che non sei onnipotente, che è sempre un’opera da rifare, perché comunque la possibilità della violenza e di farci male a vicenda si ripresentano ogni volta che proviamo a fare qualcosa assieme.

Lui lavora molto sulla questione del modello, di stare attenti al modello. Prima Luigi ha detto benissimo le cose: che si possano rivelare a se stessi, mettersi in contatto con il proprio desiderio. Più avanti c’è un pezzo in cui dice: «Ho conosciuto questo ragazzo. Il mio modello era Rimbaud, il suo modello è quello di fare il tagliaboschi del Canada. A me non interessa, l’importante è che questa persona sia in contatto con il suo desiderio». In questo blocchetto, che ho iniziato con 46 e che va avanti fino a 70, lui lavora proprio su come deve essere l’educazione, e insiste tantissimo sui modelli. Gli aforismi 63 e 64 insistono continuamente su queste cose. «Maneggia lo scoutismo con cautela. Non devono guardare i modelli che tu proponi come un rospo guarda una farfalla». Stai attento a cosa fai desiderare se non sei in grado di creare delle circostanze, delle possibilità. Non credere che si possano cambiare le persone più di tanto. «Non dire loro: “E io allora?” Tu magari sei un adulto modello. Certamente non sei più un modello di bambino. Ma quando si tratterà di avere coraggio, sarà necessario che tu ne abbia per trenta; quando si tratterà di dare seguito alle idee, bisognerà averne per cinquanta; quando si tratterà di ridere, sarà necessario che tu sia felice per cento piccoli insofferenti».

Bisogna lavorare su se stessi più che lavorare sul ragazzino o la ragazzina che ti trovi di fronte. Questa è un’insistenza fondamentale, che ti viene proposta mille volte, fin dall’inizio te lo dice. Aforisma numero 3: «Quello grida e gesticola, ti tempesta di progetti e di lamentele; l’altro dorme e dorme senza sogni. Ti dici: “L’impresa è facile; risveglierò quello addormentato e calmerò quello agitato”. Ma non ce la farai perché è impossibile che la pianta sia nel seme e il seme sia già pianta. Trova per quello agitato un lavoro che occupi proficuamente la sua agitazione e insegna all’addormentato a lavorare dormendo. Così facendo non sarai potente quanto il buon Dio, ma avrai fatto del tuo meglio».

Quando Deligny fu chiamato a scrivere delle prefazioni ha avuto scorno e pudore di se stesso: è sentenzioso, sembra che sappia tutto. Però invece è un grande servizio, perché trovi consolazione, guida leggendo queste cose. Ci sono delle volte in cui magari proponi a una classe di fare un lavoro e ti sembra impossibile: se si scoraggiano devi essere tu a trovare la possibilità di aprire la strada preparando tutto il materiale, essendo pronto a tutto quello che succede. Vedete, è una lettura da semplice persona impegnata che trova nel lavoro di cui lui parla, qualche cosa. Spessissimo intervengono anche dei discorsi, come diceva Luigi, sull’amore contrapposto al lavoro. Dice «sei sicuramente un adulto modello, ma non sei un modello di bambino»: ci tiene sempre moltissimo a difendere la radicale differenza tra adulto e bambino, a invitarti a fare un passo indietro. Fa parte del discorso di non ottenere degli individui perfettamente adattati, monotoni, spenti, a non svolgere davvero la funzione che vuoi, ma di stare spudoratamente, totalmente dalla parte di chi scassa, per dargli una possibilità, e farlo semplicemente perché cerchi di non essere egoista, e non perché pensi di salvare te stesso o salvare qualcun altro. Leggendo il libro si trovano tutti questi dibattiti: la riflessione sull’egoismo, la riflessione sull’appartenere a una categoria sociale, per estrazione sociale, che non è la stessa degli zoppi, dei malandati e dei marci che di te non se ne fanno niente, di chiederti perché lo fai e fino a che punto ti sacrifichi. È impietoso nel mettere alla luce queste contraddizioni, ma quello che interessa di più sono le possibilità e le soluzioni. Quindi non l’amore, fonte di ogni tipo di confusione. Lui distingue sempre l’adulto e il bambino; rispetta sempre la differenza del bambino: questo è un libro pieno di affermazioni di amore senza usare questa parola, ma di rispetto e di credenza nel diritto dell’infanzia a essere messa al riparo della violenza nel momento in cui si ripone la possibilità di un mondo in cui la violenza è contenuta. Pur essendo un libro intriso di rispetto e di amore per l’alterità dell’infanzia e la della promessa che c’è dentro, è un libro che invita al lavoro e allo sforzo per salvaguardare questa differenza e questo rispetto. È stato il libretto rosso per chi si occupava di educazione attiva e dell’educazione nuova perché parla continuamente del lavoro dell’educatore: porta la corda, non stancarti di giocare, fagli lavare i piatti. Poi, nelle pagine in cui spiega come era organizzato il Cot, il centro di osservazione e orientamento, spiega che l’organizzazione era veramente rigorosissima. Ogni mattina facevi colazione e potevi scegliere delle attività; alcune erano pagate con una moneta interna, altre invece erano gratuite; con quella moneta facevano alcune cose, gli educatori segnavano tutto e preparavano. Poi c’era il pranzo e nel pomeriggio di nuovo, alle sei, le porte si aprivano, venivano realtà del territorio, adulti di tutti i tipi: un’organizzazione straordinaria, che aveva lo scopo di darti una possibilità di entrare in contatto con il tuo desiderio, con modelli di esistenza nel mondo, in cui tu potessi cercare di nuocere il meno possibile a te stesso e alle persone che ti stavano accanto. Continuamente questa questione del lavoro: all’inizio è messa in relazione, in alcuni aforismi, con la questione dell’amore. 12: «Devi sapere ciò che vuoi. Se vuoi farti amare da loro, porta delle caramelle. Ma il giorno in cui ti presenterai a mani vuote, ti tratteranno da grande infame. Se vuoi fare il tuo lavoro, portagli una corda da tirare, legna da tagliare e sacchi da trasportare. L’amore verrà più tardi, e non è quella la tua ricompensa». E il 13: « Se ti presenti con le tasche piene di giocattoli, nel giro di un’ora li faranno in mille pezzi. Se vieni con la testa piena di progetti, in tre giorni li manderanno all’aria. E le giornate hanno ventiquattro ore, le settimane sette giorni, i mesi quattro settimane e gli anni dodici mesi. E dopo quelli che hanno imparato a divertirsi da soli, ne vengono altri a cui sta bene annoiarsi. Il matrimonio è sì amore, ma anche stoviglie da lavare due volte al giorno. Non dico questo per scoraggiarti, ma perché tu dosi il tuo coraggio».

Questo libro serve assolutamente anche a chi lavora a scuola, dal mio punto di vista. Quando lo leggo non penso tanto ai disadattati quanto a una classe. Nelle nostre scuole non esistono più le classi differenziali, ma in moltissime scuole esistono le classi-ghetto. Nella scuola del primo ciclo spesso le classi non sono formate in moto eterogeneo, ma omogeneo: ci sono classi estremamente difficili, e in queste classi spesso c’è un’enorme confusione tra coloro che hanno la funzione di educare e di istruire assieme: si fanno moltissimi discorsi di disciplina, che il tuo compito è di istruire, di come li devi trattare. Quando si tratta di lavorare insieme, e lavorare perché una persona abbia la chance di diventare ciò che può nuocendo meno agli altri, non c’è molta differenza tra lavorare in una scuola o in un centro educativo. Per questo penso che abbiamo bisogno di questo libro e di lavorare sul rapporto che c’è ancora oggi tra educare e istruire. L’aforisma numero 19 non ve lo leggo ma lui lo espunse nella seconda edizione, e parla proprio della differenza tra educare e istruire: se sei un educatore a cui interessa l’istruzione può darsi che tu fallisca. L’istruzione viene, dal mio punto di vista, soprattutto per gli ultimi se ti poni radicalmente insieme ad altre e altri la questione dell’educazione. Ma questo è un mio piccolo tema di fine d’anno scolastico (sono reduce da scrutini di insolita violenza). C’è un blocchetto straordinario sul rapporto con la punizione. Io vengo sempre accusata di non usare la sospensione, le note, di trovare altri modi. Non è la bontà o l’amore, il non volere fare male: sono delle convinzioni pedagogiche profondamente meditate. In “Seme di canaglia” ci sono delle pagine straordinarie sulla punizione e la violenza: non sono il modo in cui si costruisce la possibilità di crescita per chi non fa quel che può.
C’è un pezzo nei “Vagabondi efficaci” in cui Deligny si confronta con le istituzioni. Per chiudere sul rapporto tra chi ha il ruolo nell’istituzione e chi ne ha un altro, ha uno statuto diverso, è dalla parte delle persone in crescita e sottoposte: lui parla delle “marionette”. «Questa scena sarebbe da filmare: ho accompagnato dei ragazzini convocati per un’udienza del tribunale minorile. Neri come tappi da calamaio sul loro piedistallo di legno, il presidente, il sostituto, il cancelliere. Per completare il quadro, gli assessori. In aula, i delegati delle case.  […] Tutte queste marionette la cui stranezza un tantino inusitata non sfugge all’occhio attento dei piccoli deviati, per quanto il loro livello mentale superi appena i nove anni d’età, si accaniscono a scavare, dalla parte del Bene e della Legge, piccoli stagni insufficienti in cui marciscono scandalosamente i ragazzini disagiati. Dico “marionette” e mi spiego. Tutte queste persone (nell’esercizio delle loro funzioni) sono collegate da fili a un’astrazione qualsiasi che ne regola i movimenti. Diventano zuccherose o severe, furiose o amorevoli, in controtempo, in contropiede, in controvita. Sono faccia a faccia con i bambini nel loro travestimento funebre. La Carità, la Giustizia, le Credenze, la Legalità si fanno ventriloque per accrescere l’illusione».

Quando siamo delle marionette, legate a dei princìpi di astrazione, e non riusciamo, lavorando sull’ambiente e le circostanze a creare le possibilità perché qualcuno faccia qualcosa di diverso, ci tramutiamo in marionette. Dentro questo tipo di passaggio io vedo una fase, un tema importante di Deligny, perché lui ha lavorato negli organismi educativi, e ha lavorato con questi fortissimi princìpi istituenti, è stato un grande organizzatore. Sia il Cot che la Grande Cordata hanno vissuto di una grande prudenza e organizzazione: il gioco da una parte, aria, acqua, luce, vento; ma dall’altra lavoro, prudenza, organizzazione. A un certo punto, però, fa una mossa invece tutta dalla parte dell’istituente e non più dalla parte dell’istituzione. L’azione di sedersi al tavolo con le marionette e di trovare i modi con le marionette la fa, ed è l’altra parte del racconto.

Vorrei precisare qualcosa sul rifiuto della sanzione, perché penso che sia abbastanza importante e interessante per chi si occupa di educazione. Una delle frasi di Deligny, che non si sa neanche più in certi ambienti dell’educazione attiva, che sia di Deligny, è questa (numero 72): « Impedirti di punirli ti obbligherà a occuparli». Da questo numero sono tantissimi, almeno dieci quelli per cui insiste continuamente sulla questione della punizione (numero 74): «Dì a te stesso che l’educazione comincerà il giorno in cui il clima sarà completamente libero dal più piccolo miasma di sanzione». Difficili da disinfettare dalla sanzione verso l’altro, come per esempio dal voto, e di un certo uso del voto. Dietro queste scelte e queste posizioni non c’è solo una profonda cultura pedagogica per cui nel problema c’è la soluzione (“occupali al posto che punirli”), ma c’è anche una profonda riflessione sul rapporto tra quello che possiamo fare e l’ambiente organizzato in cui ci troviamo. In un’altra parte, quando racconta del Cot, c’è qualcosa di simile: questo lo dico a chiunque di noi, lavorando in un’istituzione profondamente regolata, provi, per l’appunto, a fare in un’altra maniera, a fare a meno delle sanzioni o usare il voto in una maniera differente, e deve passare in quel momento in cui per lui si rubano i portafogli o si spaccano i vetri, in cui comunque ci sono dei momenti di tensione. La soluzione non può essere la sanzione in quel momento, la violenza, ma deve essere per forza la nascita di una nuova organizzazione che si dà una piccola comunità che vuole vivere assieme. Nella parte de “I vagabondi efficaci” a un certo punto si dice: «Una delle ragazze del centro è un’educatrice ventitreenne, nata e cresciuta in un ambiente molto agiato, approdata qui per il gusto dell’esplorazione umana. Vive il più vicino possibile ai ragazzi, parla con loro e li ascolta. Mi ha detto: “In prigione erano più felici. Nella loro cella, in nove o dieci, si aiutavano. Non avrebbero mai commesso furti tra loro. Qui, all’aperto, sparpagliati, a loro agio, si derubano, si denunciano. Uscendo di prigione, hanno ripreso il loro egoismo fin dalla cancelleria del servizio centrale”. È sinceramente delusa. La sua osservazione è giusta».

Chi di noi prova a fare un consiglio di classe organizzato sa che alcune volte sono le peggiori meschinità che vengono fuori. «Ignora che gli annegati, quando riprendono a vivere, per prima cosa vomitano. Non sa che la vita di una piccola collettività, emana leggi, regole e abitudini, a uso esclusivo di se stessa e che questa onestà molto apparente e scrupolosa di un gruppetto di prigionieri, è un riflesso collettivo che si prolunga molto spesso nell’asservimento totale dei più deboli».

In un’altra parte Deligny dirà che la chiave di volta della nostra società è la prigione. Anche l’esito estremo del tentativo delle Cévennes è un modo per sottrarsi a questa figura della prigione, o della figura del campo che, volenti o nolenti, nella moltitudine della modernità dalla Prima guerra mondiale in avanti, dall’organizzazione industriale ci viene proposta e riproposta, e che ci forma e informa più di quanto crediamo, e a cui possiamo cercare di fare una resistenza che si replica continuamente sapendo che siamo dentro alla figura del carcere. Come dicevo, stare dalla parte dei più deboli a qualunque costo è un tentativo, una presa di posizione a cui invitano queste cose.

Abbandono “Semi di canaglia” e ricordo che l’ultimo degli aforismi parla proprio di questo, del mestiere dell’educatore: «È un mestiere da bambini, è un mestiere d’apostolo, un mestiere da operaio montatore o meglio da stiratrice. E le pieghe sono tenaci nel corpo e nell’anima dei bambini sui quali ha pesato, con tutta la sua massa inerte, una società di adulti completamente indifferenti». Su questa cosa della meschinità degli adulti verso i bambini, come dicevo, torna e ritorna più volte; così come altrettanto tutta una parte fondamentale di “Seme di canaglia” parla del fatto che la punizione è inutile anche perché moltissimi di loro, dei ragazzini e delle ragazzine con cui lui ha avuto a che fare, o di quelli che incontriamo noi, vivono in condizioni sociali e familiari che permettono di fare quello che puoi: «Se qualcuno si rifiuta di camminare, controlla prima che non abbia un chiodo in una scarpa». Poi lui parla dei tre fili con cui si tessono assieme le cose: il sociale, il familiare, l’individuale. Se hai soltanto l’individuale, il ricamo sarà delicato, e quindi il fallimento ce l’avrai. O in altri modi dice: «Quando avrai trascorso trent’anni della tua vita a mettere a punto dei fini metodi psico-pediatrici, medico-pedagogici, psico-pedo-tecnici, alla vigilia della pensione, prenderai una buona carica di dinamite e farai saltare con discrezione qualche isolato in un quartiere di catapecchie. E in un istante avrai fatto più lavoro che in trent’anni».

Questa è l’epoca di “Seme di canaglia”, ed è molto utile, ma la cosa straordinaria è che è perfettamente attuale per noi che lavoriamo adesso nelle istituzioni. Ma in tutta la parte che non c’è in questo libro, nella riflessione su cosa sia il linguaggio e sul lasciare le tracce, e sui suoi tentativi cinematografici, anche lì ci sono delle cose straordinarie. Sebbene lui fosse all’inizio di una diffusione totalmente pervasiva e dominante dell’immagine, ci sono dei passaggi straordinari che dobbiamo leggere su che cosa succede a un bambino o una bambina, a un ragazzo o a una ragazza che crescono in un mondo saturo di immagini: lui parla proprio di cinema, radio e televisione, nelle situazioni in cui qualcuno non ha facile accesso al linguaggio scritto, all’espressione verbale, che continuano comunque a rimanere privilegi di ambiente. Ci sono delle pagine straordinariamente illuminanti di cosa succede al bambino che vede tutto il mondo a portata di mano, che impara a conoscere l’equatore, l’Everest, il grand hotel attraverso le immagini, che vuole fare un passo ed esserci subito, ma poi misura tutta la differenza su quelle immagini. E quindi quale può essere la funzione dell’educazione in un mondo continuamente più complicato? È impressionante pensare che abbia scritto queste cose negli anni Cinquanta: «Sarebbe forse ora di ripensare l’educazione in funzione di questo nostro mondo a più facce». Questa sua affermazione arriva durante tutto un racconto di cosa è un mondo in cui «cinema, radio, stampa traducono il mondo in immagini, musica, frasi. Sono il nutrimento costante della potenza immaginativa dei bambini. Come ci si può stupire se i bambini vogliono stare subito in piedi senza sforzo in un mondo che, per un’illusione ottica assorbita quotidianamente, vedono dalla loro finestra?». Nessuno di noi può svolgere un lavoro educativo senza porsi questa questione del rapporto con l’infosfera, con i media, con il medium in cui tutti siamo, e gli eventi che abbiamo vissuto ce lo dicono. C’è una parte del libro che si intitola “La cinepresa, attrezzo pedagogico” (un articolo tratto da una rivista, “Verso l’educazione nuova”, che risale a ottobre-novembre 1955), in cui Deligny riflette profondamente su come usare la cinepresa e il cinema, ovvero il fare, ma vale anche per la radio, non semplicemente da un punto di vista di fruizione ma come mezzo di formazione pedagogica. Sembra qualcosa che è stato usato da chi ha fatto quel documentario che si chiamava “Selfie”, o di chi fa dei tentativi di usare in un altro modo la radio o gli altri mezzi di riproduzione di cui disponiamo. «È necessario che questo strumento sia davvero a disposizione di chi voglia servirsene per raccontare in qualche sequenza ciò che vede della vita che si trova a vivere»: la generosità di mettere a disposizione questi mezzi governati da degli intenti formativi è fondamentale. Il suo intento formativo era quello di dire: modifica le circostanze e fa’ in modo che chi prima ha filmato ciò che vedeva viva un’esperienza e torni a filmare in quella sua sorpresa dello sguardo. In questo c’è qualcosa di incredibile. Dice: «Cercare di mostrare come un insieme di nuove intenzioni modifichi la percezione della realtà». Sapere che quella che noi riproduciamo non è la realtà, ma sono costruzioni comuni di percezioni della realtà, sono missioni ambiziose in cui veramente gli educatori e le educatrici, la pedagogia si possono alleare insieme all’arte, alla filosofia in nome dell’interdisciplinarietà, del rapporto tra l’arte, la scienza e l’educazione che ci dobbiamo ripromettere di fondare assieme.

Abbiamo chiesto quindi a Luigi e Federica di prendere una parola da lasciarci al termine di questo incontro.

Luigi Monti: La mia è molto ovvia: tentativo. Mi sembra veramente che una delle cose che manchi di più in questo momento ai contesti educativi in cui lavoriamo sia proprio questa capacità di andare per tentativi ed errori, per prove e sperimentazione, quindi lasciare il corso alla vitalità, alle idee, alla creatività di chi sta dentro le istituzioni educative.

Federica Lucchesini: Io dico ambiente. Penso che in qualche maniera, anche con tentativi come questi, possiamo modificare l’ambiente. Mi piace pensare a quella frase di Deligny che fa riferimento a “difficoltà solo apparentemente personali”: cambia qualcosa nell’ambiente invece di cercare di cambiare le persone con cui lavori.

Notiziario 267 Download PDF